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di Andrea Colombo

Il Manifesto, 18 luglio 2023

La premier: una norma per chiarire cosa sono i reati di criminalità organizzata. Facile che, a sentirsi accusare ogni giorno di “ipergarantismo”, la premier in privato s’imbizzarisca. Nel consiglio dei ministri di ieri Giorgia meloni ha affrontato il capitolo giustizia, pur non all’ordine del giorno, ma solo per evitare che la recente sentenza della Cassazione sulla criminalità organizzata allenti le maglie in nome appunto delle garanzie. La premier è papale: “Si rende necessaria e urgente da parte del governo una norma che chiarisca cosa debba intendersi per ‘reati di criminalità organizzata’ e che eviti che gravi reati vadano impuniti per effetto dell’interpretazione della Cassazione”. In “accordo” con Nordio la materia sarà oggetto di un decreto a stretto giro.

La sentenza in questione, pur riguardando solo le intercettazioni, ha valore globale e stabilisce che rientrano “nella nozione di delitti di ‘criminalità organizzata’ solo fattispecie criminose associative, comuni e non”. Traduzione: non c’è reato associativo senza un’associazione, né reato di criminalità organizzata senza appartenenza a un’organizzazione criminale. Anche qualora un’organizzazione possa avvalersi di quel crimine.

Alla sedicente garantista di palazzo Chigi la sentenza pare un’enormità, sia in linea di principio sia per gli effetti che avrebbe sui processi in corso, nei quali il materiale probatorio è stato raccolto grazie all’uso molto estensivo degli strumenti di indagine consentito solo per la criminalità organizzata. Urge dunque un decreto che renda perseguibili anche i non associati e non organizzati. Altrimenti “rischiano di andare impuniti per un supposto vizio procedurale delitti della massima gravità”. Di sfuggita la presidente segnala anche che sulla base della sentenza verrebbe meno “il maggior rigore nella concessione dei benefici penitenziari”. Per lei, come per tutto il governo di destra, l’importante è che in galera si entri più facilmente e se ne esca molto difficilmente, non il contrario. C’è da scommettere che nessuno, dall’opposizione, stavolta la criticherà. C’è il caso anzi che ci scappi qualche applauso.

Senza dubbio nell’urgenza con la quale il governo ha deciso di cancellare d’autorità una sentenza della Cassazione pesa l’imminente anniversario della strage di via D’Amelio. La premier ricorderà Paolo Borsellino partecipando al corteo organizzato da Fdi e vuole usare la commemorazione per far piazza pulita di ogni dubbio sulla sua passione per il massimo rigore. Certamente incidono anche le polemiche dei giorni scorsi, quelle che lei stessa ha in parte sedato spiegando a Nordio e al mondo che intervenire sul concorso esterno in associazione mafiosa non è necessario: “Mi concentrerei su altre urgenze”. Ma più di ogni altra cosa agiscono la sua naturale propensione e la sua visione politica, che per il garantismo possono nutrire solo massimo disprezzo. Su queste basi è molto difficile credere che miri davvero a una riforma di immensa portata come la separazione delle carriere.

Probabilmente, fosse per lei, quel punto del programma Meloni lo lascerebbe parcheggiato ai box di partenza per l’eternità. Il problema è Forza Italia. Antonio Tajani, nella sua prima intervista da segretario del partito azzurro, ribadisce che “la priorità è la separazione delle carriere”. Cose che si dicono, certo, e del resto finché si resta alle parole anche la premier concorda. Ma a spingere Forza Italia c’è anche una voce, anzi un grido, che Tajani non può non ascoltare: quello di Marina Berlusconi, la donna che tiene Fi in vita.

Ieri la primogenita di Berlusconi ha indirizzato al Giornale una lunga lettera, motivata dall’inchiesta di Firenze che ipotizza una manovra per far vincere a Forza Italia e al Polo le elezioni dopo le stragi mafiose del 1993. La difesa di suo padre contro chi avrebbe “un nuovo obiettivo chiaro: la damnatio memoriae” è appassionata ma dal punto di vista politico ancor più rilevante è l’atto d’accusa contro “un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali”. Per l’erede “il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai”. Dunque, conclude Marina Berlusconi, “penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci”. È una chiamata alle armi e Forza Italia non potrà non ascoltarla.