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di Niccolò Nisivoccia

Il Manifesto, 7 luglio 2023

Per essere completa, per arrivare a compimento, la legge sulla giustizia riparativa, approvata lo scorso autunno, aveva bisogno ancora di alcuni provvedimenti attuativi; e due di questi provvedimenti, due decreti, sono stati ora emanati nei giorni passati (e pubblicati giovedì sulla Gazzetta ufficiale).

Non sembra dunque destinata a rimanere solo un’intenzione, questa legge: una legge annunciata ma non realizzata, come troppo spesso purtroppo succede alle nostre leggi. Ora sta diventando a tutti gli effetti una legge anche concretamente applicabile; salvo il fatto che in ogni caso spetterà poi a tutti coloro che operano nella giustizia (dai giudici agli avvocati, agli stessi mediatori) farla vivere di vita propria, nella quotidianità. Farla entrare nel corpo vivo delle cose, inscriverla nei nostri orizzonti quotidiani.

Ma cos’è, la giustizia riparativa? Detto nel modo più semplice possibile, è una modalità alternativa di risoluzione dei conflitti, ma alternativa non nel senso di sostitutiva. Bisogna essere molto chiari, al riguardo, anche perché questo è un piano che spesso ha generato e genera equivoci: la giustizia riparativa non intende sovrapporsi alla legge; non intende sostituirsi alle sentenze dei giudici, e tantomeno intende contestarle.

Al contrario: il rispetto della legge e delle sentenze ne rappresenta il presupposto che la orienta. Il fine della giustizia riparativa è quello di offrire ad autori e vittime dei reati, a patto che lo vogliano, quello spazio e quel tempo che i processi non contemplano, non prevedono: quello spazio e quel tempo all’interno dei quali autori da una parte e vittime dall’altra possano recuperare, alla presenza di un mediatore “equiprossimo”, la possibilità di un confronto e di un dialogo, per riempirli anche solo di sguardi e silenzi e non per forza di parole. Ma sul presupposto, appunto, che i fatti siano chiari, e che altrettanto chiare siano le responsabilità e la loro assunzione.

La giustizia riparativa, come infatti si dice, opera non “al posto” ma “all’insegna” della legge. Potrà scaturirne un accordo, o perfino un perdono (pur nell’ambiguità di significati che la parola “perdono” porta con sé quando venga usata al di fuori di una sfera solo intima e personale, a maggior ragione quando venga evocata in ambito giuridico). Ma tutto questo comunque appartiene all’eventualità, e non alla necessità: una riconciliazione sarà sempre possibile, insomma, ma l’esito riparativo di cui parla la legge potrà avere il contenuto più vario. Cosi come, da parte sua, l’autorità giudiziaria potrà sempre valutare liberamente tale esito, qualunque fosse, senza esserne vincolata.

Naturalmente ha molto detrattori, la giustizia riparativa. È inevitabile, quando gli ordini dati, i nostri orizzonti più abituali, vengono scompaginati da nuovi modelli che li mettano in discussione. È questo quello che fa la giustizia riparativa, la quale riguarda specificamente il diritto penale ma a ben vedere richiama il diritto all’interrogazione di se stesso molto più in generale: lo induce a ricordarsi che la sua funzione non dovrebbe essere quella di chiudere la realtà dentro una successione di norme tecniche, bensì quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze.