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di Gerardo Villanacci

Corriere della Sera, 7 giugno 2023

La riforma da poco entrata in vigore si caratterizza per una più marcata criticità trasversale. La durata del processo deve essere sicuramente ragionevole, ma ciò non può consentire di eludere norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori nei quali pure si sostanzia il processo equo.

Tra le non poche già promulgate riforme della giustizia, l’ultima da poco entrata in vigore si caratterizza per una più marcata criticità trasversale. Eppure è tempo di giungere ad un effettivo cambiamento della giustizia nel nostro Paese e affinché ciò possa avvenire, va compreso che questa riforma non è stata varata soltanto per accedere ai fondi Pnrr utili a ridurre la durata dei processi civili e penali, poiché se ci limitassimo soltanto al conseguimenti di tali obiettivi, potrebbe accadere che una volta superate le difficoltà anche rilevanti di questa fase di decollo, si approderebbe, come è già successo in passato, ad un assestamento convenzionale del nuovo impianto legislativo senza sollevare le sorti della nostra instabile giustizia. Questa volta si deve e si può fare molto di più avendo maggiori risorse disponibili che potranno permettere un potenziamento dei servizi digitali, dei sistemi telematici e di gestione delle attività processuali. Ma anche la realizzazione di strutture edilizie più efficienti e moderne e, non ultimo, il rafforzamento delle misure di prevenzione, rieducazione e di reinserimento sociale dei detenuti. Ragioni che da sole giustificano l’intervento riformatore e aiutano a sopportare le difficoltà correlate alla sua concretizzazione.

Non di meno, è legittimo interrogarsi se il semplice cambiamento di disposizioni legislative possa consentire una svolta tangibile del sistema, o piuttosto fomenta la percezione che si tratti di un ulteriore imposizione autoritaria espressa nella legge. Certamente, per quanto riguarda la carenza di personale, ben venga l’innesto dei circa settemila nuovi assunti, che a regime supereranno i sedicimila, nell’Ufficio del processo. Un provvedimento risalente all’ormai lontano 2014 con la finalità di risolvere i lunghi tempi di attesa dei processi e il patologico loro arretrato. Va detto però, con franchezza, che oltre ad essere necessario formare adeguatamente queste nuove figure professionali e dotarle di strutture operative, è decisivo aumentare il numero dei magistrati essendo pacifico che quello attuale non è sufficiente al bisogno del pubblico servizio. Ma è anche doveroso incentivare quelli più meritevoli, sia sotto il profilo della produzione che, ancora di più, quello della qualità del loro lavoro essendo ormai acclarato anche da decisioni recenti della Suprema Corte (Ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2057) che la durata del processo deve essere sicuramente ragionevole, ma ciò non può consentire di eludere norme processuali improntate alla realizzazione degli altri valori nei quali pure si sostanzia il processo equo.

Non basta; bisogna anche invertire radicalmente la rotta nell’utilizzo ormai spregiudicato dei giudici onorari che per la penuria di magistrati in servizio, pur senza averne analoghe competenze, ne detengono gli stessi poteri. Si è giunti al punto che per reggere gli Uffici giudiziari italiani, si fa affidamento vitale sui circa 5000 giudici onorari che vi operano con un costo che, almeno in parte, potrebbe essere utilizzato per l’assunzione di magistrati di carriera. Ecco quindi che ciò di cui abbiamo più bisogno è un cambio di passo culturale partendo dall’ormai non più tollerabile ribaltamento del 40% delle sentenze nei gradi di appello. Detto meglio, quasi una sentenza su due viene riformata, con tutto quanto ne consegue in termini di costi economici, credibilità della giustizia e, non certo per ultimo, impatto devastante per le persone coinvolte. Parliamo di tematiche che costituiscono le cause che alimentano la diffusione delle controversie giudiziarie, potendo chiunque, soprattutto se in mala fede, fare affidamento sulle variegate e variabili interpretazioni delle leggi per sottrarsi alle proprie responsabilità. Eppure, il fenomeno potrebbe essere arginato con l’uniformità interpretativa delle norme giuridiche. Non una utopia, ma un obiettivo raggiungibile attraverso le indicazioni della Corte di Cassazione, l’organo che per propria natura istituzionale è chiamato a garantire questa finalità. Soltanto un processo dall’esito prevedibile può scoraggiare il ricorso ai tribunali e aprire ad una maggiore disponibilità verso soluzioni stragiudiziali che consentirebbero di farci perdere il poco invidiabile primato di litigiosità che colloca il nostro Paese al secondo posto in Europa, dopo la Russia.