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di Elisa Chiari

famigliacristiana.it, 5 dicembre 2023

La notizia che Cesare Battisti avrebbe chiesto l’accesso a un programma di giustizia riparativa porta alla ribalta della cronaca un istituto che la riforma Cartabia ha formalizzato. Cerchiamo di capire che cos’è, come nasce, a che cosa mira. Traduzione dall’inglese “restorative justice” la cosiddetta giustizia riparativa è un percorso parallelo ma non alternativo al processo penale che mira a “riparare” la frattura che il reato determina tra reo vittima e società. Il termine, in chiave moderna, risale agli anni Settanta del Novecento anche se ne sono esistite forme più antiche. Lo si fa coincidere con “caso Kitchener”, dal nome di una piccola città dell’Ontario al confine tra Canada e Stati Uniti, quando educatori proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini per aver danneggiato delle case un impegnativo programma di incontri tra i minori e le famiglie che avevano subito i danni dovuti alle loro azione e l’impegno a risarcirli riparando materialmente il danno compiuto con il lavoro di restauro.

Esperienze simili sono state realizzate da allora in diversi Paesi dal nord America all’Oceania, passando per l’Europa a partire dagli anni Ottanta, all’inizio come esperienze estemporanee, dal basso, in seguito catalogati dall’International scientific and professional advisory council (ISPAC). Tra gli anni 80 e 90 pratiche simili sono state tradotte in forma di legge in diversi Paesi europei, con particolare riferimento alla giustizia penale minorile. Nel 1999, in tema di mediazione penale, è stata approvata la Raccomandazione del Consiglio d’Europa R19 del Comitato dei ministri degli Stati membri. Il tema è anche oggetto della Direttiva 2012/29/UE. Esempi di giustizia riparativa sono considerati e universalmente riconosciuti gli interventi di riconciliazione che hanno permesso al Sud Africa, con la Truth and Reconciliation Commission (TRC), o in afrikaans Waarheid-en-versoeningskommissie (WVK), ossia “Commissione per la verità e la riconciliazione”, di sopravvivere all’Apartheid e all’Irlanda del Nord di sopravvivere alle migliaia di morti dell’Ira senza che i rispettivi conflitti degenerassero in guerra civile.

Qual è la filosofia del concetto di giustizia riparativa - È l’istituzione di un percorso che possa contribuire al risanamento del tessuto della società lacerato dal delitto, coinvolgendo in modi diversi il reo, la vittima e la società, superando la mera retribuzione delitto/sanzione, che, concentrandosi sulla relazione società-reo, finisce per marginalizzare la vittima lasciandola sullo sfondo: la giustizia riparativa sarebbe nelle intenzioni di chi la sostiene un modo di rimettere la vittima al centro o almeno di riconsiderarla, di rispondere anche al suo bisogno di superare la ferita che il delitto le ha inferto.

Che cosa non è la giustizia riparativa - Non è un meccanismo di riparazione del danno nel senso di lavoro socialmente utile e non è, almeno in Italia, un’alternativa al processo penale che rimane con le medesime regole e procede come ha sempre fatto e termina con una sentenza di assoluzione o di condanna e, nel caso, relativa sanzione. Nel sistema italiano che ha in Costituzione l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale non sarebbe immaginabile, neanche volendo, un percorso alternativo al processo. Può essere solamente un percorso parallelo che cerca per altre vie una strada di mediazione. Quando però un percorso riparativo si compie, e può essere compiuto anche senza il consenso della vittima e in sua assenza con altre parti di società ferita, ed è riconosciuto come positivo dal giudice, cui viene inviato l’esito, può rappresentare una attenuante al momento dell’emissione della sentenza o comunque una diversa valutazione della gravità del reato agli effetti della pena o dar luogo alla sospensione condizionale della pena per il termine di un anno. Ma non implica sconti di pena automatici. Al contrario, il rifiuto di accedere al percorso o il suo esito negativo non possono tradursi in una sanzione più grave di quella originariamente inflitta. Il dissenso della vittima non può costituire, di per sé, una preclusione alla possibilità di accedere al percorso.

Perché ha fatto discutere di recente - Il 19 settembre 2023 per la prima volta in Italia una Corte d’Assise, quella di Busto Arsizio, si è pronunciata su una richiesta di ammissione a un programma di giustizia riparativa - prevista dalla riforma Cartabia - da parte di un condannato per femminicidio, inviando il caso al centro per la giustizia riparativa e mediazione penale del Comune di Milano, perché si verifichi la fattibilità del programma. Il caso ha fatto discutere perché riguarda un delitto particolarmente efferato e perché il padre della vittima ha reagito negativamente alla notizia uscita sui media. La notizia secondo cui anche Cesare Battisti, che sta scontando ergastoli per 4 omicidi, compiuti durante gli anni di piombo, avrebbe chiesto di accedere a un percorso di giustizia riparativa, si presta a riaccendere il dibattito.

Giustizia riparativa secondo la Riforma Cartabia - La possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa, si legge sul portale Altalex, che illustra il Decreto legislativo n.150 del 10 ottobre 2022 di attuazione della legge 134 del 27 settembre 2021, (c.d. “riforma Cartabia”), deve essere “assicurata a titolo gratuito a tutti i soggetti che vi hanno interesse; l’accesso è - per espressa previsione dell’art. 43 - sempre favorito, con la sola eccezione del caso in cui dallo svolgimento del programma possa derivare un pericolo concreto per i partecipanti; come precisa l’art. 44, i programmi sono accessibili senza preclusioni relative alla fattispecie di reato o alla sua gravità e l’accesso è possibile in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena o anche dopo l’esecuzione della stessa, così come all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità o per intervenuta estinzione del reato”.

Chi può accedere alla giustizia riparativa - Possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa: la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa e altri soggetti appartenenti alla comunità (es. familiari, persone di supporto, enti e associazioni), oltre a chiunque vi abbia interesse. L’adesione è libera e volontaria. Non può essere imposta a nessuna delle parti e il percorso avviene sotto la guida di un mediatore terzo e imparziale che non è comunque il giudice, dato che il percorso riparativo avviene al di fuori dei tribunali. Non implica necessariamente l’incontro diretto tra vittime e persone indicate come autori del reato.

In che cosa consiste concretamente - L’esito ripartivo po’ essere simbolico e “può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. Oppure materiale e “può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori”.

Quali possono essere gli effetti penali della giustizia riparativa - “L’articolo 15 bis del d.lgs. 150/2022 oltre a consentire l’accesso alla giustizia riparativa in ogni fase dell’esecuzione penale”, scrive di Francesco Cingari in La giustizia riparativa nella riforma Cartabia, pubblicato in Sistema Penale, novembre 2023, “attribuisce allo svolgimento del programma riparativo e all’eventuale esito riparativo rilevanza ai fini della concessione di benefici penitenziari e di misure alternative al carcere. In particolare, posto che la mancata effettuazione del programma o il suo insuccesso non possano assumere rilevanza, la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale”. E ancora: “Inoltre (…) lo svolgimento del programma e l’eventuale esito riparativo assumono rilevanza ai fini della valutazione del periodo di prova e la dichiarazione di esito positivo. Infine, lo svolgimento riparativo figura tra le condizioni in presenza delle quali il detenuto o internato condannato per reati ostativi dei benefici penitenziari non collaborante possa accedere a tali benefici stessi”.

Il precedente italiano, l’incontro tra Br e vittime - Un esempio italiano di giustizia riparativa, percorso “precursore” compiuto a pene ormai scontate, con la mediazione di padre Guido Bertagna, ha riguardato responsabili e vittime del terrorismo rosso ed è documentato in Il libro dell’incontro. Di questo programma porta sovente testimonianza positiva e pubblica Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che, dopo una vita che definisce “sotto la dittatura del passato” si è più volte definita, a partire dal 2009: “Una utente felice della giustizia riparativa. In un primo momento ho detto no. Ho accettato di partecipare a una riunione solo di vittime e ho incontrato persone che attraverso questi incontri hanno iniziato a vedere le cose in un modo diverso”.

Tra il dire e il fare - Se l’ambizione è chiara: dare alle vittime uno spazio di ascolto, che Agnese Moro arriva a esemplificare anche nella possibilità di rimproverare, e a chi ha commesso un torto di prendere coscienza della sofferenza inflitta per maturare consapevolezza della ferita inferta al tessuto sociale; la difficoltà di “istituzionalizzare”, e inevitabilmente “burocratizzare”, un percorso che necessariamente è individuale e che potrebbe non essere da tutti e per tutti, è altrettanto evidente; soprattutto se l’intenzione è, come ovunque asserito, non farne un mero modo di provare ad acquisire benefici penali, in un sistema sovraccarico.

Tra gli addetti ai lavori il dibattito è aperto, anche perché si tratta di individuare prassi a un meccanismo e a una cultura nuove, ma è una riflessione che finora sembra concentrarsi prevalentemente sulle problematiche di conciliazione tra giustizia riparativa e penale, perché non vengano meno garanzie all’indagato: qualora si intervenga in fase di indagini: perché un percorso riparativo non si traduca in presunzione di colpevolezza. E, qualora lo si faccia in fase successiva, che un esito non positivo possa tradursi in un pregiudizio negativo da parte del giudice verso l’imputato o il condannato.

Quello che sembra mancare molto in questo dibattito è la vittima, che il più delle volte appare relegata ai margini, citata quasi solo per dire che non le si può imporre un consenso o accordare un diritto di veto. Sembra poco rispetto alla prospettiva di “accoglienza” che a quanto si dice dovrebbe essere il cuore della giustizia riparativa. E qui forse sta il nodo tra il dire il fare che è una questione tutta aperta.