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di Valentina Alberta*

Il Dubbio, 22 settembre 2023

Mi fa piacere avere la possibilità di replicare agli argomenti sempre stimolanti del prof. Mazza, che dal primo momento dell’approvazione della legge delega si è schierato pubblicamente contro la disciplina della giustizia riparativa. Inizio proprio da questo, quella “disciplina”, organica e attenta alle garanzie di tutti, di un fenomeno che già esiste e che opera e si sviluppa al di fuori del sistema processuale; ma che - inevitabilmente, vista la struttura del nostro sistema processuale penale, che implica anche nella fase di cognizione una valutazione della persona - ha inevitabili punti di contatto con il processo e necessita quindi di norme che regolino la riservatezza dell’ambito riparativo, l’esclusione di effetti negativi nel processo nel caso di mancato raggiungimento di un accordo, le possibili interferenze legate al momento di avvio e di chiusura del programma di giustizia riparativa.

Che la giustizia riparativa abbia in sé una connotazione “etica” è frutto di un colossale equivoco. I centri per la giustizia riparativa sono pubblici e gratuiti, e i mediatori altro non fanno che stimolare il dialogo tra i soggetti coinvolti, senza ricercare una qualsiasi verità, né tantomeno il perdono della vittima. Scopo dei programmi non è l’ottenimento della “confessione” bensì il dialogo e semmai il raggiungimento di un accordo riparativo. E qui sta un elemento centrale che mi pare sia sottovalutato dai detrattori della giustizia riparativa. L’accordo altro non è che una strada percorribile per tutti coloro che lo vogliano (e soprattutto per chi non possa permettersi di guadagnare attenuanti attraverso condotte risarcitorie) per valorizzare una condotta post fatto che - come tante altre - ha diritto di cittadinanza nel processo penale.

Nessun “abbandono del principio di laicità”, semmai una disciplina che mette al bando, soprattutto nella fase di esecuzione, un distorto concetto di valorizzazione di attività a favore della vittima, che caratterizza talvolta progetti moraleggianti proposti negli istituti penitenziari. La vittima, anzi, trova una naturale sede di ascolto in quell’ambito separato e riservato; non posso non auspicare che tale sede possa smorzare atteggiamenti talvolta violenti di frustrazione di aspettative mal riposte nella condanna e nella sanzione penale, spesso inutili per guarire ferite profonde.

Veniamo ai passaggi processuali: non un azzeramento delle garanzie, ma più garanzie. Sia in fase di cognizione che in fase di esecuzione. Fondamentali il principio di riservatezza e la non incidenza in negativo statuita in modo chiaro per entrambi gli ambiti. Alcuni punti fortemente critici ci sono: il p. m. come autorità giudiziaria inviante in fase di indagini (perché non avrebbe potuto essere il g. i. p.?); l’invio anche di ufficio (difficile però ipotizzare in concreto inutili invii “forzosi” rispetto alla continua ricerca di efficienza del processo); la possibilità di un consenso all’utilizzazione di dichiarazioni rese in fase di mediazione, senza che esso sia garantito dall’assistenza difensiva (l’avvocato non partecipa certo alle intime sedute di mediazione, ma partecipa invece a pieno titolo nella fase di acquisizione del consenso iniziale e in quella della eventuale definizione di accordi patrimoniali); l’incertezza sul contenuto potenzialmente pericoloso di relazione e comunicazioni (e su questo il dialogo e il confronto con i Centri sarà prezioso). Di tutto questo e di tanto altro abbiamo discusso al tavolo milanese, e continueremo a farlo, ogni sei mesi. Non lo definiremmo un approccio “acritico”.

Peraltro, a proposito dell’invio di ufficio e della presunta perdita di imparzialità del giudice, sia permessa un’osservazione pragmatica, che non ci fa certo abdicare dalla sacrosanta difesa dei principi. Non possiamo ignorare la prassi molto diffusa nel caso di reati perseguibili a querela di parte, nei cui procedimenti assistiamo a costanti inviti alla trattativa, che - solo perché avente ad oggetto denaro anziché relazioni umane - paiono non preoccupare….

Quanto alla questione del “consolidato modello di procedura penale circondariale”, mi sento di rassicurare l’amico prof. Mazza. Nessuna rinuncia alla legalità processuale. Gli “schemi operativi” (ormai si teme di usare il termine “protocollo” per una certa cattiva coscienza rispetto a tavoli nei quali in effetti si sono talvolta conclusi accordi al ribasso con la magistratura) non derogano alle norme (né le interpretano), non introducono obblighi, ma si limitano ad individuare e diffondere prassi condivise che vengono suggerite agli operatori, allo scopo di fare funzionare strumenti certamente utili, per le tante ragioni che non è questa la sede per spiegare. Peraltro, costituiscono impagabili occasioni di confronto che, se condotto su posizioni paritarie e senza timori reverenziali, hanno il pregio di prevenire quelle prassi che i detrattori della giustizia riparativa giustamente paventano. Non è una strada facile, ma ci proveremo.

*Presidente Camera Penale Milano