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di Michela Di Biase*

Il Dubbio, 29 marzo 2024

Franco Cordero scriveva che l’universo normativo è fatto di parole. Massimo Recalcati sostiene come la legge (in senso psicoanalitico) sia quella della parola: parola che è orizzonte e limite. Sull’uso e la dicotomia di parole piene e parole vuote, quelle che hanno il potere di risolvere le formazioni dell’inconscio e quelle prive di questo significato, si è interrogato Jacques Lacan. Non esiste una parola che non presupponga un dialogo, che non esiga una risposta, la parola è alla base della relazione intersoggettiva, attraverso questa avviene il riconoscimento dell’altro. Operare e vivere nel pianeta giustizia implica di per sé un uso accorto, sapiente e saggio delle parole ciascuna con il proprio significato auto riconoscibile, ma capace di costruire una trama o un ordito di pensieri e di pratiche.

Quando si parla di giustizia riparativa, ci ricorda Grazia Mannozzi, un uso corretto del linguaggio è fondamentale: ci si muove sul terreno fatto di prassi, metodi vari e diversi principi, valori, garanzie. C’è la necessità di utilizzare le parole in modo responsabile e come sosteneva Calvino, anche soprattutto nella loro complessità, estirpando l’approssimazione. L’istituto della mediazione consente di giungere alla riparazione. Questa non sostituisce il processo ma lo completa, introducendo elementi estranei al dibattimento come collera e risentimento, dolore e smarrimento. Agnese Moro, descrive il suo stato d’animo attraverso l’immagine dell’”Urlo” di Munch, un dolore straziante e muto fissato per sempre nel passato e destinato a condizionare il futuro. (un urlo che non trova il modo di uscire) In uno dei suoi incontri, promossi dall’azione preziosa di Padre Antonio Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, in dialogo con Adriana Faranda, dice: “La giustizia aveva fatto il suo corso ma le mie ferite erano rimaste uguali. Si dice: il tempo guarisce tutto. Non è vero. Il tempo incancrenisce, “solidifica” le cose, non permette loro di evolversi.

Io soffrivo la dittatura del passato, quel passato che si ripeteva ogni giorno. La mia vita era come agganciata a un elastico. Andavo avanti, facevo molte cose, ma non sapevo mai in quale momento quell’elastico mi avrebbe riportato indietro, se si sarebbe allungato per sempre o se un giorno si sarebbe spezzato. Ero come un insetto in una goccia d’ambra, da dove non avevo modo di uscire”. Il perdono non è un sentimento ma una decisione che devi prendere per fermare il male. Perdonare è una scelta per stare bene, per riprenderti la tua vita”.

Padre Occhetta, nel suo libro “Le radici della giustizia. Vie per risolvere i conflitti personali e sociali”, ci dice che la riparazione include qualcosa in più della rieducazione, scommette su una ricostruzione di relazione a partire da una restituzione causata dal reato, è come il lievito che fermenta la pasta del diritto. Evitando così che il dolore della vittima si trasformi in un fiume carsico. Avremmo potuto scegliere parole diverse per dialogare sulle parole della giustizia, avremmo potuto individuare altre parole per parlare di giustizia riparativa: dialogo, confronto, ascolto, mediazione, riparazione. Abbiamo scelto perdono, che è forse la parola più potente, quella che in questo nostro tempo si presta a maggiori strumentalizzazioni, quella più complessa da comprendere.

Proviamo a partire da un’azione, quella del perdonare (l’altro o te stesso) per trovare un punto di approdo comune, su un altro possibile modo di amministrare la giustizia. Rimane la domanda se la società sia pronta per una nuova cultura della pena. Molto dipenderà dall’approfondimento e dal confronto, dipenderà dalle parole che sceglieremo.

*Deputata, componente della commissione Giustizia, capogruppo Pd in commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza