di Francesco Occhetta*
Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2024
Conciliare perdono e giustizia è una sfida antica. Nell’immaginario collettivo, la giustizia è personificata da Dike, la dea greca della giustizia, munita di bilancia e spada, simboli di proporzionalità e forza. Su questa figura si sono modellate le nostre leggi. L’esperienza biblica ci offre in controluce l’immagine dei giusti che con un ago e un filo ricuciono le ferite del mondo, sono presenti in ogni ambito della nostra vita - dalla famiglia, alla scuola, dal lavoro alla politica -, e ci ricordano che la giustizia è ristabilire le relazioni che si spezzano. Eppure nella storia la giustizia è stata intesa in termini retributivi (punizione del colpevole) o rieducativi (riabilitazione del reo).
Solamente negli ultimi cinquant’anni, si è affermata la prospettiva della giustizia riparativa, che pone al centro la riparazione del danno e la riconciliazione tra vittima e reo. Capitato che la vittima chieda sempre alti risarcimenti ma dopo aver incontrato il reo ne chieda molti meno, la differenza era il prezzo del dolore inespresso. I principali libri dei profeti si aprono con il rib, un modello giuridico in cui Dio ricuce il tradimento del suo popolo a partire da una domanda: “Perché mi hai tradito?” e con un cammino di riconciliazione fondato sulla verità di ciò che è accaduto. La Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano.
Si diventa giusti per cultura, non a caso scegliamo di essere giustizialisti e rigoristi oppure tra permissivisti e indulgenti, fino a quando il problema ci tocca direttamente nella carne. Anche l’Ai ci restituisce una definizione di riparazione quasi perfetta, manca però il dolore delle vittime, ciò che intercetta il cuore la macchina non riesce a definirlo. Il perdono può solo passare dalla riparazione e dall’intelligenza umana. Il padre della riparazione nata negli anni Settanta, Howard Zehr la definisce un modello “che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo”.
È la giustizia dell’incontro e del perdono, altrimenti la lancetta del tempo per le vittime si blocca sul momento del reato. I codici illuministici, in cui lo Stato si sostituisce alla vittima, hanno bisogno di recuperare la fraternità dimenticata tra l’uguaglianza e la libertà. Lo ribadisce chi ha sofferto come Grava Machel Mandela quando lo scorso maggio è stata invitata dalla Fondazione Fratelli tutti insieme a molti altri Nobel. In Ruanda, dopo 80o mila morti la riparazione è entrata nel modello della Caciacia; in Congo in quello della Palabra, in Sud Africa ha funzionato la Commissione di verità e giustizia di Mandela, nel nord Europa per alcuni reati che includono addirittura gli abusi, in Brasile il modello nel modello delle Apac, in molti Ordinamenti la riparazione regge il diritto minorile.
Il rapporto giustizia e perdono nella Bibbia si basa su alcuni principi: Dio condanna il male e salva la persona, non si vendica di Caino, la sua dura pena lo farà diventare padre di una generazione e costruttore di città. Secondo: in Israele la responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva, quando si macchia la terra del sangue del fratello deve essere bonificata dalla società altrimenti non darà più frutto per nessuno. Infine, occorre tempo per fecondare la giustizia di umanità. Nella storia di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli, è solo con il passare degli anni e grazie a un cammino di espiazione che loro potranno vederlo con occhi nuovi quando dirà “sono io vostro fratello Giuseppe”.
Secondo il Papa, la cultura dello scarto ci porta a considerare come usa e getta non solo gli oggetti, ma anche le relazioni umane, mentre il cammino è quello della riparazione. Il perdono provoca anche la politica: occorre prevenire i reati agendo sulle cause, come le disuguaglianze sociali, la corruzione e la mancanza di opportunità. Si puniscono tossicodipendenti e donne costrette a trasportare droga nel proprio corpo, ignorando i veri responsabili: i grandi trafficanti. Non c’è altra via: l’alto tasso di recidiva e il sovraffollamento delle carceri, la lunghezza dei processi e le sentenze che si limitano a stabilire la verità processuale ma non quella sostanziale vanno ripensati come modello.
Il pericolo è dietro l’angolo, in nome della giustizia si può condannare il giusto e salvare il malfattore, come nel processo a Gesù. Il volume simbolo della riparazione del gesuita Wisnet, Pena e retribuzione, è dedicato ad Hans un giovane che dopo la prigione si impicca lasciando scritto “perché gli uomini non perdono mai”. È un monito che lascia senza fiatare. Invece la giustizia informata dal perdono non creerà il paradiso, ma almeno arresta l’inferno delle vendette e delle pene esemplari.
*Docente alla Pontificia Università Gregoriana