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di Franco Corleone

L’Espresso, 3 settembre 2023

Molti esultano per l’entrata in vigore della cosiddetta giustizia riparativa e addirittura scomodano il termine di rivoluzione per un modello di risoluzione dei conflitti che non si comprende se sia alternativa al diritto penale o piuttosto interna al processo.

Aldo Moro, giovane giurista, auspicava non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale; il cardinale Martini proponeva un’alternativa alla pena piuttosto che pene alternative e, infine, Massimo Pavarini suggeriva di “cercare qualche cosa di meglio delle pene legali”.

Una utopia certamente ma un orizzonte che va mantenuto integro proprio in tempi duri, quando Fratelli d’Italia propone di riscrivere l’articolo 27 della Costituzione ovvero il fondamento di una concezione della pena che punti al reinserimento sociale e rinunci alla vendetta come ripeteva instancabilmente Alessandro Margara.

Il rischio della riforma Cartabia è costituito dalla eterogenesi dei fini, passando dallo stato penale che ha soppiantato quello sociale, allo stato etico.

La giustizia riparativa, più correttamente andrebbe definita come rigenerativa o ristorativa delle relazioni sociali, non può assumere un carattere privatistico, ma deve essere una giustizia di comunità.

Appare evidente che una società incattivita, povera di solidarietà, non è in grado di ricucire e ritessere rapporti umani.

La gestione di una materia così delicata è affidata a una impalcatura burocratica di Conferenze per la giustizia riparativa istituite presso ogni Corte d’Appello che daranno vita a corrispondenti Centri ad hoc con il supporto di mediatori che spingeranno al riscatto morale e alla salvezza dell’anima.

Di fronte a questo baloccarsi di filatori di nebbia concettuale, mi è tornato alla mente il movimento Liberarsi dalla necessità del carcere creato da Mario Tommasini, mitico assessore di Parma, sostenitore della sperimentazione di Franco Basaglia e editore del volume “Che cos’è la psichiatria?” con la copertina disegnata da Hugo Pratt.

 Movimento che ebbe il battesimo in un convegno a Parma il 30 novembre 1984 con la relazione introduttiva di Franco Rotelli, psichiatra e politico di acuta intelligenza.

È un testo ricco di suggestioni che può ancora offrire delle linee di interpretazione delle contraddizioni che nel tempo non si sono sciolte ma aggravate. Rotelli ammoniva che il carcere non si sarebbe riformato dal suo interno, dietro le mura, con il peso del silenzio.

“Il diritto penale deve restringersi, ridursi il più possibile, che altre forme di garanzia, altri patti sociali, lo devono sostituire”. Sollecitava il legame tra carcere e territorio e auspicava la ricostruzione del ruolo delle regioni, dei comuni, delle forze attive nel sociale, intellettuali, operatori e tecnici “per riuscire, ancora, a tagliare la testa del re”.

Importante il richiamo ad evitare la “terapeutizzazione della pena alternativa alla detenzione.”

Non abbiamo bisogno di distrazioni dalle condizioni materiali del carcere, divenuto fabbrica di morte come alle Vallette di Torino e non dobbiamo creare isole di privilegio di classe rispetto ai disperati della discarica sociale. È l’ora di una vera rivoluzione, a cominciare dalla cancellazione del Codice Rocco. Do you remember, ministro Nordio?