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di Gianluca Gambogi*

Il Dubbio, 17 gennaio 2024

Il Tribunale di Genova, con una recente ordinanza, ha evidenziato, come meglio non si sarebbe potuto fare, le criticità della giustizia riparativa. Si tratta, a ben vedere, di questioni più volte trattate su queste pagine anche se rileggerle in un provvedimento dell’Autorità giudiziaria le amplifica non poco. I giudici genovesi hanno colto e sottolineato alcuni aspetti di inadeguatezza del sistema: il primo, davvero sconcertante, attiene all’assenza, assoluta, in questo momento, di strutture che possano garantire percorsi riparativi a chi desidera intraprenderli; il secondo riguarda il meccanismo dell’art. 129-bis c. p. p.; il terzo riguarda la violazione della normativa euro unitaria; il quarto, infine, riguarda l’eccesso di delega, e quindi la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, poiché il D.Lgs. n. 150/22 non avrebbe applicato in maniera coerente i principi dettati dalla Legge n. 134/21.

Aspetti tutti importanti, nessuno escluso, tant’è vero che la lettura del provvedimento dell’Autorità giudiziaria (l’ordinanza è scritta in maniera chiarissima) offre un nitido quadro delle inadeguate soluzioni poste in essere dal nostro legislatore. Vale la pena tuttavia di soffermarci sulla criticità che risalta maggiormente rispetto alle altre.

L’art. 129-bis c.p.p. da tempo viene indicato come portatore di un meccanismo irragionevole e non condivisibile. Non può prevedersi un sistema che consente al giudice di imporre la riparazione alle parti così come attualmente previsto. Innanzi tutto perché non vi può essere costrizione alcuna sulla vittima che può legittimamente rifiutarsi di partecipare altrimenti sarebbe costretta a subire un’ulteriore vittimizzazione. In secondo luogo perché, ed è un aspetto che pone la nostra normativa in contrasto con quella europea, il diritto di difesa costituzionalmente garantito non può essere in alcun modo eluso.

Prova ne sia che, proprio a livello sovranazionale, una delle condizioni essenziali per i percorsi riparativi è che il reo abbia riconosciuto come accaduti i fatti che sono contestati al medesimo. Sorprende, non poco, che il legislatore abbia dimenticato un passaggio così importante della normativa europea. Non è quindi un caso che il provvedimento affermi che i programmi di giustizia riparativa devono rispondere almeno alla condizione sopra indicata e cioè che l’autore riconosca i fatti essenziali del caso. Ma non vi è soltanto questo.

I giudici del capoluogo ligure registrano, come già evidenziato, la totale mancanza di un’organizzazione per la giustizia riparativa che, alla luce della legislazione vigente, non può essere delegata a strutture diverse da quelle indicate. È davvero pensabile che una delle parti più significative della riforma Cartabia sia stata così mal concepita? Infine si preannuncia, laddove si dovesse proseguire su questa strada, un ulteriore profilo di profonda criticità e cioè l’assenza, o quasi, degli avvocati delle parti nel percorso riparativo. Appare difficile pensare che la parte, vittima o reo che sia, accetti serenamente di affrontare quanto sopra senza la presenza al suo fianco del difensore di fiducia scelto.

Le norme di più facile applicazione, come insegnano i classici, sono quelle sagge (e brevi) perché rispettarle è più facile per tutti. Se vogliamo evitare la strage delle illusioni è augurabile che il legislatore torni al più presto sui suoi passi.

*Professore di diritto penale Università di diritto internazionale Milano (UPM)