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di Goffredo Buccini

Corriere della Sera, 15 giugno 2023

I nodi della riforma: dopo mesi arriva un disegno di legge molto garantista, “il miglior omaggio” al leader scomparso. Ma il grande cambiamento sistemico non è all’orizzonte. Nel giorno dei funerali di Berlusconi, la riforma della giustizia, infine, si muove. Magari non con passo da gigante. E tuttavia è difficile non cogliere in questa concomitanza una cifra simbolica, accreditata del resto anche negli uffici di via Arenula come “il miglior omaggio” al leader scomparso. Dopo sette mesi, sul tavolo dell’esecutivo arriva un disegno di legge dall’impianto molto garantista, come previsto. Ma la promessa, grande riforma sistemica per ora non è all’orizzonte.

Forse perché l’Italia non è un Paese per riformisti, cristallizzata com’è in corporazioni, ordini e conventicole con poteri di veto persino sui regolamenti condominiali. O forse perché stavolta l’oggetto del cambiamento è così divisivo da avere già paralizzato la vita pubblica per trent’anni. Sicché appare sempre meno criptica la dichiarazione d’esordio d’un liberale come Carlo Nordio, il quale, fresco di nomina al vertice del ministero, sentì l’inusuale bisogno di avvisare che si sarebbe dimesso ove non gli avessero consentito di fare il proprio lavoro fino in fondo. Ora quel lavoro è iniziato. Ma, nella visione del guardasigilli, non può consistere soltanto nell’abrogazione dell’abuso d’ufficio (che, si dice, paralizza la firma dei pubblici amministratori), nel porre mano a fattispecie problematiche quali il traffico di influenze, nel tutelare la privacy dei terzi intercettati o i diritti degli indagati (lodevole qui, ma difficile da realizzare, è l’idea di un collegio di gip per decidere sulla custodia in carcere).

No, la prospettiva reale di Nordio è una sterzata garantista dell’intero sistema: andando a toccare, ovviamente coi tempi del dettato costituzionale, anche veri baluardi dell’ordinamento giudiziario come l’unicità delle carriere e del Csm o l’obbligatorietà dell’azione penale. Vasto programma, certo, soprattutto perché il fuoco di sbarramento delle toghe è incominciato ben prima di accostarsi a una riforma così profonda.

È in tale contesto più ampio, oltre che negli specifici punti d’attrito del caso Artem Uss e dei controlli sul Pnrr, che va inquadrato lo stato di agitazione dell’Associazione nazionale magistrati sfociato nei duri toni dell’assemblea plenaria di domenica scorsa. È indiscutibile che una reazione, diciamo, di categoria sia derivata dalla decisione del governo di eliminare il controllo concomitante della Corte dei conti sull’impiego dei fondi nel Piano di rilancio e resilienza. Ma dalle parole di molti autorevoli magistrati si coglie anche altro: la voglia di dare un colpo di avvertimento al ministro, in vista, appunto, già dei primi cambiamenti presto all’esame del Parlamento.

In una recente intervista a Repubblica, il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, teneva insieme la protesta delle toghe contro l’azione disciplinare disposta da Nordio sull’infelice gestione del fuggiasco russo Uss con la difesa delle prerogative della magistratura contabile e, ancora, con l’intangibilità delle intercettazioni e della disciplina sull’abuso d’ufficio. In sostanza riproponendo come unica via della pace l’idea che un governo, di qualunque colore, prima di aprire il libro delle riforme, debba sedersi al tavolo della concertazione coi sindacati dei magistrati, come di qualsiasi altra categoria. Il ministro è certo sostenuto da Giorgia Meloni, ma un tema tanto insidioso non può lasciare del tutto indifferente una premier magari poco desiderosa di attirarsi addosso l’unica opposizione ancora viva in Italia, quella appunto della magistratura organizzata.

Ciò rende improbabile che una organica riforma garantista degna di tal nome veda mai la luce. E tuttavia, per una bizzarria della storia, una ben più radicale riforma potrebbe star prendendo consistenza proprio dentro la più nota roccaforte togata, nella sua carne viva. Scorrendo Questione Giustizia, il sito di Magistratura Democratica, accanto a editoriali di piena ortodossia che richiamano i colleghi allo spirito degli “attualissimi” “insegnamenti degli anni Settanta” lanciando una nuova “resistenza civile”, si potrà trovare anche la pacata riflessione di una giudice calabrese, Pina Porchi, che apre dolorosamente la “questione generazionale”: i giovani magistrati stanno allontanandosi dai luoghi dell’associazionismo giudiziario e dalle correnti; “refrattari al discorso identitario o ideologico” si dicono “delusi” dalle degenerazioni e “diffidenti” verso un mondo “autoreferenziale”: quello in cui i colleghi più anziani si dedicano a competizioni personali” sulla pelle degli ultimi arrivati. È troppo facile derubricare tanta disillusione alla voce “effetto Palamara”. Anche se per onestà va aggiunto che la giudice Porchi augura alla storica corrente di sinistra il recupero della capacità di parlare ai giovani, la parte più intrigante della sua analisi si trova in premessa, una vera cesura: qualcosa sta cambiando tra chi ha intorno ai trent’anni e sente nella toga “un sogno realizzato” e subito tradito. Non ce ne vogliano all’Anm: ma se la vera riforma fosse culturale e stesse proprio in questo distacco da identità e ideologie? Se ciò che appare a taluni una iattura fosse una opportunità? Le correnti, e segnatamente Md, hanno avuto una funzione innovatrice negli anni Sessanta e Settanta rispetto a una magistratura codina che, come ricordava Emanuele Macaluso, non riusciva nemmeno a perseguire gli assassini dei sindacalisti nella Sicilia del dopoguerra. Ma le stagioni cambiano, le democrazie maturano, così come cambia e matura la consapevolezza professionale delle nuove generazioni. Se un giorno gli indagati potessero infine ignorare le preferenze politiche dei magistrati e questi ultimi scoprissero che non si raddrizza per sentenza il legno storto dell’umanità, beh, il grosso sarebbe fatto. E persino la riforma della giustizia dalle ambizioni più elevate ci apparirebbe come il dettaglio tecnico a seguire: poco più che una faccenda da azzeccagarbugli.