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di Don Antonio Mazzi

Corriere della Sera, 11 aprile 2023

Il maestro dovrebbe essere quello che traccia sentieri nei fatti e non sui banchi dell’università o, meglio, nemmeno su quelli. Credo che mai come in questo periodo, l’urgente richiesta delle nostre comunità di trovare qualche educatore disponibile a intervenire per darci una mano, sia stata così quaresimale. Tutti andiamo leggendo e dicendo che l’impegno è molto serio e che le nuove tipologie di dipendenza sono non solo impegnative, ma soprattutto molto difficili da interpretare e da coniugare. Non voglio accusare, ma solo rilevare che anche le stesse università non si sono adeguate e aggiornate. L’iter formativo fino a tempo fa sufficientemente valido ed efficace, oggi non risponde più e, oserei dire, che quasi scontenta gli stessi frequentatori dei corsi.

Quando ai tempi dicevamo che l’educatore è solo colui che è più avanti provvisoriamente e non quello stabilmente più su e tanto meno quello arrivato in cima e che poteva guardare il panorama dall’alto in basso, pensavamo di aver fotografato bene la situazione. Invece, oggi, abbiamo capito che siamo tutti in cammino sulle stesse lunghezze, tra sentieri accidentati, segnalati male, e che costringono tutti, educatori ed educati, allo stato di viandanti, a salire verso l’inesplorato, desiderosi di trovare sentieri meno accidentati.

Dante faceva dire a Virgilio: “Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”. Non è più così. Anche il lampadiere ha la lampada spenta. Abbiamo perso il lume. Vorremmo che fosse l’allievo che, vistoci stanchi, prendesse il lume per fare lui stesso da battistrada.

L’educazione è un tortuoso impasto di bene e di male. Siamo camminati dalla storia invece che camminatori nella storia. Perciò è chiaro quanto sarà sempre più difficile trovare aiuti quando noi stessi stiamo perdendo luce e forza. Non voglio dilungarmi in linguaggi accademici. Voglio solo dire a me stesso, mentre sto perdendo il sonno, che questo problema non si risolve lasciando liberi i sabati, evitando le notti in bianco e osservando i tempi sindacali. Il problema è ben più pesante e ci coinvolge tutti. È preoccupante pensare alle orme che segnano cammini capaci di intersecarsi, di incontrarsi, di scontrarsi, di intrecciarsi, di separarsi, di riunirsi.

Ho tanta paura che non troviamo nessuno che venga a darci una mano, perché ci siamo ingrippati, anche noi. Il mestiere dell’educatore dovrebbe essere quello che traccia sentieri nei fatti e non sui banchi dell’università, o meglio, nemmeno su quelli. È facile scarabocchiare le pagine del block-notes e un po’ meno scarabocchiare i pomeriggi delle giornate in comunità.

Non è sufficiente citare quattro specialisti e tanto meno è sufficiente perdersi tra le note dei grossi volumi. Lasciamo ad altri scalare la scienza, la psicopedagogia. A noi, invece, cercare le orme appena segnate tra un sasso e l’altro, tra un incrocio e l’altro. Gandhi diceva: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere negli altri”. Il potenziale che abbiamo dentro dove è finito? Ed è questo che ci può aiutare a trovare alleanze. Perché dentro abbiamo un potenziale che da solo può agevolare noi per fare meglio il nostro mestiere e affascinare altri a venire a cambiarlo con noi. Solo il nostro cambiamento apre le porte a chi vuole cambiare con noi.

Dobbiamo muoverci sincronicamente e insieme domandarci se oltre al coordinamento c’è una vera ricchezza umana e relazionale di alta qualità. Ed è in questo momento che ci dobbiamo domandare quale è la qualità dei miei desideri, delle mie aspirazioni e delle mie ispirazioni. La nostra identità non è statica ma dinamica e cioè libera delle nebulose delle nostre incertezze e delle nostre timidezze. La nostra più vera identità è data dalla speranza. Mi godo pensare che secondo Isidoro “spes” viene da “pes”, piede. La speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non camminiamo né noi e tanto meno quelli che dovrebbero venire ad aiutarci.