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di Aurora Matteucci

Il Dubbio, 12 febbraio 2024

La lotta alla violenza di genere non concede alcun tipo di mediazioni: l’imputato deve essere spogliato di ogni diritto e si mette in piedi una campagna di mostrificazione. Giorni addietro un’amica mi invia su whatsApp il link di una petizione. E, in calce al messaggio, un laconico “ma tu che ne pensi?”. Ne riceviamo spesso di inviti a sottoscrivere petizioni, le più varie. Ancora non ho capito se davvero siano mai state valutate dalla politica come termometro del “paese reale”, se siano state mai in grado di cambiare alcune carte in tavola o se siano semplicemente derubricate come forme ibride di democrazia partecipativa di bassa lega. Ma le leggo sempre. Nutro per queste petizioni una strana curiosità. Chi chiede cosa, perché. Talvolta le trovo persino giuste. Dunque, come sempre, apro e leggo: change.org.

“L’Università di Padova” scrivono 163 firmatari “attraverso la sua rettrice e in numerose forme, ha espresso il suo cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin, laureanda dell’ateneo e si è schierata contro la violenza sulle donne. Solo a parole, però, perché nei fatti un suo importante membro, l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto penale, ha assunto la difesa del suo assassino (reo confesso) Filippo Turetta. Se davvero l’Università di Padova è vicina alle donne vittime di violenza e vuole sostenere questa lotta, si renda estranea alla difesa di chi ha commesso un omicidio efferato e la cui colpevolezza è indubitabile”. “Che ne pensi?” mi risuona questa domanda come un martello pneumatico. Che ne penso. Sono indignata. Ma come dirlo? Come spiegare il perché a lei, ad altri.

Ecco uno dei dilemmi più impegnativi degli ultimi tempi. Come raccontare la Costituzione? Come raccontare la presunzione di innocenza e il diritto di difesa specie quando ti accorgi che questi due principi non godono più del sigillo sacrale di concetti acquisiti per diritto di nascita, che non sono più, se mai lo sono stati, eredità genetica di chi è nato sotto il segno della Repubblica, non più anticorpi della Storia.

Del resto, nel Paese in cui non fa più scandalo sentir dire che “gli assolti sono colpevoli che l’hanno fatta franca” la presunzione di innocenza resta in bocca a pochi nostalgici, radical chic, buonisti della prim’ora. Né ha più fortuna il diritto di difesa: il processo è solo un ostacolo - per citare il titolo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani che si terrà in questi giorni a Roma - un inutile fuori onda lontano dai riflettori tutti accesi, ormai, nei corridoi delle Procure con telecamere puntate sui capi di imputazione scritti in nome del popolo italiano.

Dunque, come trovare le parole per spiegare perché quella petizione è contraria ai principi basilari del nostro sistema democratico in un contesto come questo? Non è facile. Non lo è perché quella richiesta, oscena, alla rettrice dell’Università di Padova ha in grembo la capacità di blandire istinti primigeni, la vendetta di fronte alle atrocità. Occhio per occhio, dente per dente. In salsa politically correct. Non si chiede, infatti, la sedia elettrica ma si pretende (solo) di negare una difesa. La lotta senza quartiere alla violenza di genere non concede mediazioni: o dentro o fuori. Se si è dentro il carnefice, reo confesso per giunta, deve essere spogliato di ogni diritto.

Si mette in piedi una campagna di vera e propria “mostrificazione’ dell’imputato e piano piano lo si spoglia delle garanzie fondamentali. Ecco che, allora, diventa facile, facilissimo chiamare a raccolta, con una petizione, i cittadini dalla parte “giusta”, dalla parte della vittima, contro il mostro. E cosa c’è di sbagliato? Tutto. E come dirlo, però? Non è facile, ma vale la pena provarci.

Dobbiamo fare uno sforzo, allora: occorre riavvolgere il nastro ricominciando dall’abc, scomodando persino l’etimologia del verbo “difendere”. Dal latino de-fendere: (de, che indica allontanamento, e fendere, colpire), la difesa corrisponde all’atto di allontanare, facendosi scudo, qualcuno da ciò che lo colpisce. Diritto inviolabile e persino irrinunciabile del nostro sistema. Nessuno di coloro che è “colpito” dal processo penale può spogliarsene a piacimento.

È passata tanta storia da quel lontano 24 maggio 1976 quando, nel processo torinese al nucleo storico delle Brigate Rosse, il brigatista Maurizio Ferrari intimò ai difensori d’ufficio di non prestarsi a diventare collaboratori del potere indossando la toga in loro difesa. Sappiamo come è andata e quanto caro è costato quel tentativo di imporsi contro l’irrinunciabilità di quel diritto. Possiamo non avere difensore nel processo penale? Si discuteva di questo, allora. È bastato, però, lo scorcio di mezzo secolo per ribaltare la prospettiva.

Il dibattito, se così possiamo chiamare le invettive che ingolfano i social, è tutto proteso, oggi, verso un’altra domanda: è giusto che un femminicida, tanto per citare uno dei tanti mostri di turno contro cui scagliare i dardi infuocati di un malessere sociale male orientato, abbia diritto ad un difensore?

I 163 firmatari di quella petizione ritengono di no, che non sia giusto. Ora, si dirà: 163 persone sono un numero esiguo e la petizione è ridicola. Ma non è rassicurante. Non è rassicurante immaginare, ad esempio, che, se i firmatari fossero senatori e la petizione un progetto di legge, con 163 voti favorevoli, altro che quorum! Una legge che vietasse la difesa al reo confesso di un femminicidio avrebbe intanto l’avallo sicuro di un ramo del Parlamento.

E non è rassicurante, ogni volta che succede un fatto oggettivamente orrendo, come quello dell’omicidio delle centinaia, delle migliaia di donne uccise per mano di uomini, dover rileggere ad alta voce l’articolo 24 della Costituzione come fosse stato scritto l’altro ieri e dover ribadire che quel diritto è assicurato a tutti, persino ai rei confessi. Non è affatto rassicurante dover apprendere dell’esistenza di un inedito girone dantesco, quello degli “indifendibili”, collocati, neanche a dirlo, nel canto dell’Inferno, in quella, tutt’altro che Divina, commedia che è il processo penale, versione social, del ventunesimo secolo.

Persone, gli indifendibili, che, per decisione di 163 firmatari, di milioni di moralizzatori da tastiera, sono esclusi dal godimento di basilari diritti civili perché - e in questo sta la gravità di quella petizione - se si vuole combattere la violenza maschile contro le donne, allora non deve essere garantito il diritto di difesa. O l’una, o l’altra.

È questa continua tendenza ad erodere, a limare fino all’osso la complessità degli accadimenti umani, questo parteggiare per la squadra del cuore, dalla parte giusta le vittime, da quella sbagliata gli imputati, che sta tracimando non solo il nucleo essenziale dei diritti e delle garanzie del processo penale, ma, prima ancora la qualità stessa del pensiero. Un po’ come dire “se critichi Israele per la carneficina nella striscia di Gaza, allora simpatizzi per Hamas”, “se non vuoi inviare armi all’Ucraina, allora sei filo russo” e per tornare in tema “se chiedi ad una donna com’era vestita, in un processo per stupro, allora stai sotto sotto alludendo al fatto che se la sia cercata”. E qui la mente corre veloce ad un altro fatto di cronaca che sta animando il dibattito pubblico. Quello del processo al figlio di Beppe Grillo.

Non solo deve essere negato il diritto di difesa al femminicida reo confesso, ma se proprio non si può fare a meno di nominare un difensore all’indifendibile, almeno che ci si attenga ad un rigidissimo protocollo etico la cui violazione viene solitamente denunciata senza prendersi neppure la briga di leggere i verbali per intero, decontestualizzando temi, domande e risposte.

Ora, nessuno dubita che il controesame di una donna che ha denunciato una violenza, ma oserei dire il controesame di qualunque testimone, debba avvenire nel rispetto assoluto della dignità del dichiarante. E certamente nessuno dubita della necessità di smascherare dispositivi linguistici di carattere discriminatorio, e di evitarli.

Per capirsi: se la domanda “com’era vestita” viene posta allo scopo di favorire una ricostruzione del fatto che tende a giustificare il raptus violento perché provocato da un abbigliamento discinto, sarebbe certamente una domanda discriminatoria e nociva, oltre che suicida. Ma se la stessa domanda viene posta, diversamente, per ricostruire tempi, modi, contesto, in cui sarebbe stata agita la violenza, oppure per verificare l’attendibilità della denunciante, questa non solo deve essere ammessa, ma è doveroso porla. Sarebbe deontologicamente scorretto non esplorare quel tema di indagine se risultasse essenziale per la difesa dell’assistito.

Come ha ben scritto la penalista Emilia Vera Giurato, in un recente post pubblicato in difesa dell’avvocata di uno degli imputati del processo “Grillo”: “una denuncia per stupro è una denuncia per stupro. Checché ne dicano gli incontenibili esperti giuristi e sociologi da tastiera, unico luogo deputato all’accertamento del fatto è il processo penale, sede in cui, attraverso l’esame incrociato, si cerca di comprendere cosa sia accaduto e se ci sia un responsabile. Prima di ciò non è dato neppure sapere se esista una vittima. Al netto della sensibilità del singolo e della capacità di maneggiare più o meno sapientemente e giustamente il linguaggio, il difensore dell’imputato ha il diritto e il dovere di rivolgere alla denunciante domande “scomode” utili all’accertamento della sua attendibilità, del fatto e della eventuale responsabilità”.

Il dolore della rievocazione di una violenza è indubitabilmente terribile, ma, sempre per dirla con Giurato, “deve considerarsi come un male inevitabile di fronte alla insopprimibile esigenza di accertare la verità”. Questa tendenza alla moralizzazione del processo penale non nasce oggi, ma parte da lontano e si innesta nel solco dell’esigenza, determinata dal vuoto cosmico in cui è imbrigliata la politica, ad attribuire alla repressione la funzione di risolvere i conflitti sociali, producendo, a cascata, almeno due effetti distorti.

Da un lato, si è irresponsabilmente trascurata un’indagine approfondita sulle origini e sull’estensione del gender crime, compresa la necessità di individuare e, possibilmente, bandire quelle sacche in cui ancora proliferano, in modo subdolo e silenzioso, prevaricazioni apparentemente innocue: dimissioni in bianco in caso di gravidanza, cimiteri dei feti, medici obiettori di coscienza che non garantiscono il diritto all’aborto, violenza ostetrica etc…

Tanto poco si è fatto in questa direzione e tanto ci si è sgolati al grido del “marcire in carcere” che il risultato è sotto gli occhi di tutti: aumentano le pene e le donne continuano a morire; viene mortificato il diritto di difesa e le donne continuano a morire. Dall’altro si è preteso che il processo penale diventasse teatro del gradimento collettivo, piegato al piacimento dei cultori del vittimocentrismo elevando la vittima “ad eroe del nostro tempo”, per usare l’espressione del Prof. Daniele Giglioli.

Va ribadito ogni volta, perché in questi casi l’equivoco è dietro l’angolo: ad essere oggetto di critica, si badi bene, non sono le donne sopravvissute ad una violenza (dunque le vittime reali), ma il vittimocentrismo e cioè la tendenza a legittimare il ricorso al diritto penale “bellico” per fronteggiare quei rischi rispetto ai quali tutti siamo ormai vittime potenziali, erigendo altari per santificare chi dichiara di aver subito un torto e finendo con il privatizzare la giustizia penale, non più un affare tra Stato e cittadino imputato, ma uno scontro a due, tra chi è già considerata vittima e chi è già considerato carnefice, prima del processo e a prescinderne. In un saggio del 2011, La Repubblica del dolore, lo storico Giovanni de Luna intravedeva e scorgeva la deriva etica di questo paese, il cui patto fondativo è costituito dalla memoria del dolore e del lutto per le vittime “della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, vittime, sempre e solo vittime”.

Oggi, con ben quattro disegni di legge, che hanno messo d’accordo destra e sinistra, si vuole persino modificare l’art. 111 della Costituzione sul giusto processo, prevedendo che “la Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate”.

La tutela delle persone offese da un reato esiste già e negli ultimi anni sono stati implementati enormemente i diritti partecipativi nel processo penale. Non sfugge, quindi, il valore simbolico dell’inserimento della vittima in Costituzione. Un sabotaggio al cuore del processo, alla funzione che gli è propria di luogo dell’accertamento di un fatto nel pieno rispetto delle garanzie dell’imputato, attore principale di un agone pubblico, non privato, in cui le istanze di riconoscimento delle persone offese non sono negate ma inevitabilmente assorbite e sintetizzate nell’azione condotta dai magistrati del pubblico ministero. Ma la questione è anche un’altra. Si finisce per dare per scontato che all’interno del processo esista già una vittima da tutelare. Ma non era forse il processo il luogo per stabilire se chi denuncia di aver subito un reato sia da considerare vittima o meno, alla fine? Il vento è decisamente cambiato: spira forte, oggi, the “wind of change.org”.