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di Goffredo Buccini

Corriere della Sera, 31 luglio 2023

Abbiamo molto da offrire, agli alleati della Nato e ai nostri partner europei: una strategia in divenire per il continente più giovane, più povero e più instabile del pianeta, che serva a contenere tanto i cinesi quanto i russi. Il golpe in Niger, subito benedetto da Prigozhin, con tanto di assalto all’ambasciata francese al grido di “viva Putin!” in uno sventolio di bandiere russe, ci svela molto della partita geopolitica nella quale il nostro Paese può essere coinvolto in Africa. L’effetto icastico è rafforzato peraltro da una pura casualità: la coincidenza di tempi tra il pronunciamento militare a Niamey, in quella fragile democrazia tanto strategica per l’Europa, e il viaggio americano di Giorgia Meloni, che ha finito per richiamare oggettivamente, al di là di ogni protocollo o dichiarazione congiunta, la dimensione anche italiana di una scommessa da sostenere in nome e per conto dell’Occidente nei prossimi anni.

Se la nostra uscita, sia pure “soft”, dall’infelice memorandum sulla Via della Seta era, probabilmente, il dossier più caro a Joe Biden nell’incontro con la giovane premier di Roma, la questione africana aveva e ha per noi una doppia valenza nel rapporto con gli Stati Uniti. Abbiamo qualcosa da chiedere, certo: l’attenzione al quadrante Sud è venuta meno nel tempo, da Obama a Trump, e gli effetti sono sotto i nostri occhi. Ma abbiamo anche molto da offrire, tanto a Biden e agli alleati della Nato quanto ai nostri partner europei: una strategia in divenire per il continente più giovane, più povero e più instabile del pianeta, che serva a contenere tanto i cinesi quanto - soprattutto - i russi, in una specie di ibrida appendice non dichiarata della guerra in Ucraina.

La mossa del cavallo di Giorgia Meloni, per uscire dalla bolla sovranista nella quale la sua stessa propaganda da leader d’opposizione l’aveva imprigionata, è stata del resto la politica estera sin dall’inizio, grazie anche alla scelta di un consigliere diplomatico dal profilo atlantista molto marcato come l’ambasciatore Francesco Maria Talò. Chi, dall’altra parte dell’oceano, temeva di trovarsi davanti una “Bolsonaro in tailleur”, è rimasto spiazzato. E, dopo l’impeccabile tenuta sul sostegno all’Ucraina (quasi un modello, in un’Europa non sempre granitica), adesso è la volta dell’Africa: l’opzione sul tavolo consiste nel presentarsi come partner affidabile per creare un nuovo equilibrio, viste le difficoltà nell’area dei francesi (con cui resta aperta un’alleanza, diciamo così, competitiva) e per arginare l’avanzata delle dittature filorusse. Il contesto, messo a nudo dai giorni drammatici del Niger, è assai difficile e può ancora peggiorare.

Dal 2020 la cruciale regione del Sahel sta smottando e ha visto altri cinque colpi di stato: due in Mali, dove i soldati di Macron sono stati espulsi a vantaggio della brigata Wagner, due in Burkina Faso e uno in Ciad. Il Niger era uno degli ultimi due regimi democratici della zona, cerniera essenziale per i flussi migratori e per il contenimento del jihadismo. Come ha notato Michele Farina sul Corriere di sabato, il golpe avviene sotto il naso degli occidentali: gli americani hanno lì 1.100 soldati, i francesi 1.500, noi 300, l’Unione europea ha appena investito trenta milioni di euro nell’addestramento dei militari nigerini, entro fine anno l’Onu avrebbe dovuto spostare a Niamey i tredicimila caschi blu cacciati dal Mali ormai caduto sotto Prigozhin. Il singolare brigante double-face del putinismo continua, com’è evidente, a svolgere in Africa un ruolo attivo coi propri pretoriani, consentendo alla madrepatria il consueto doppio binario: lui applaude la giunta militare del generale Tchiani mentre il ministro degli Esteri di Mosca, Lavrov, si unisce al coro di preoccupata condanna che sale da tutte le cancellerie. E mentre Putin, da un summit tra Russia e Africa in verità non affollatissimo, promette il sostegno militare di Mosca a quaranta Paesi africani ricattandoli al contempo con la stretta sul grano.

Questo quadro complesso si integra dentro un contesto in cui, per noi, resta ancora più pressante lo scenario nordafricano, col sostanziale fallimento della Libia e il quasi fallimento della Tunisia che cerchiamo di scongiurare, pur rischiando di dare ossigeno a un nuovo autocrate come il presidente Saied. Ma tutto è collegato. La crisi del Sahel ricade sulla costa mediterranea. Si tratta dunque di contrastare uno slogan diffuso dai regimi revanscisti africani in coro coi russi, “liberiamoci dal colonialismo occidentale”, come se l’espansionismo putiniano fosse mosso da ragioni umanitarie (in Mali la Wagner è implicata nel massacro di Moura: 500 morti).

Perciò, contro questa narrazione fasulla, può funzionare l’approccio del “dialogo fra pari”, cui la Francia fatica a ricorrere a causa di un più pesante passato coloniale: ad esso ha fatto invece riferimento esplicito Meloni nella Conferenza di Roma che, pochi giorni prima della missione americana, ha riunito alla Farnesina quasi tutti gli Stati della sponda sud del Mediterraneo allargato, del Medio Oriente e del Golfo, gli Stati europei di primo approdo, alcuni partner del Sahel e del Corno d’Africa, istituzioni europee e internazionali. S’è trattato di un anticipo di quel piano Mattei che, coniugando energia e sicurezza, razionalizzazione di flussi migratori e sviluppo, dovrebbe essere disvelato in autunno, nel prossimo vertice tra Italia e Africa. Alla fine, questo è il piatto forte che Roma può portare in dote agli alleati. Il paragone può far sorridere e perfino scandalizzare, ma in fondo De Gasperi nel 1947 offrì, nel suo primo viaggio americano, la nostra promessa di fedele trincea verso Est. Oggi, al nuovo amico americano Biden, Giorgia Meloni può proporre l’Italia come aspirante baluardo contro il caos che avanza da Sud assieme alle bandiere russe. In cambio, può trarne un ulteriore forte accredito nel concerto europeo. Arrivare a Bruxelles passando da Washington è di sicuro una strada lunga, ma non è detto che sia la meno praticabile.