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di Saul Caia e Vincenzo Iurillo

Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024

In 19 penitenziari, grazie all’ingresso dei cellulari “i boss hanno continuato a minacciare e a impartire ordini all’esterno. E così riescono a eludere la detenzione”. L’emergenza è nazionale, attraversa l’intero sistema penitenziario italiano. Non c’è solo il dramma dei 25 suicidi già registrati dall’inizio dell’anno (e ricordato ieri dal Presidente Mattarella), del sovraffollamento e delle carenze d’organico nelle carceri italiane. Ci sono anche i numeri snocciolati dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ieri in conferenza stampa.

In ogni carcere si annidano una media di 100 telefonini, entrano tramite droni ipertecnologici insieme a droga e armi. Con quei cellulari, ricorda Gratteri, “i boss continuano a impartire ordini all’esterno, a minacciare, ad eludere la detenzione”. Sconfessando l’ormai celebre dichiarazione del ministro di Giustizia Carlo Nordio: “Un mafioso vero non parla né al telefono, né al cellulare perché sa che c’è il trojan, né in aperta campagna perché ci sono i direzionali”. Infatti parla tranquillamente dalla sua cella. E le mafie lucrano anche su questo traffico, con tanto di tariffario: 1.000 euro per introdurre uno smartphone, 250 euro una sim, 7.000 euro mezzo chilo di erba e una pistola “10 mila euro” dice in un’intercettazione Vincenzo Scognamiglio (fra i 30 arrestati nel maxi-blitz di ieri a Napoli), uno dei leader di una “squadra specializzata”, una sorta di franchising al servizio dell’Alleanza di Secondigliano, capace con i suoi droni, secondo l’accusa, di bucare i sistemi di sicurezza di almeno 19 penitenziari. Si riferisce ai “fatti di Frosinone”, sottolineano i pm. È l’agguato a colpi di pistola compiuto a settembre 2021 nel carcere di Frosinone: il detenuto Alessio Peluso fece fuoco su un gruppo di altri detenuti che qualche giorno prima l’avevano picchiato. Il drone gli aveva recapitato la pistola direttamente in cella. Tutto è partito da lì, con le indagini delle Squadre mobili di Frosinone e Napoli, Nic della penitenziaria e dei carabinieri del Ros.

Ci sono intercettazioni in cui Scognamiglio si vanta di essere l’unico capace di pilotare quei droni e di guadagnare “anche 10 mila euro al giorno”. Un pentito quantifica “l’affare dei droni” a Secondigliano: “Fruttava circa 30, 40 mila euro a settimana. Pensi che 1 kg di hashish a Secondigliano vale 25 mila euro mentre fuori, oggi, vale 2.800-2.900 euro”. Scognamiglio in un’altra intercettazione: “Far entrare 10 telefoni piccoli e 10 smartphone, io prendo 4.000 euro e tu con il commercio che c’è di telefoni nel carcere ti fai 30.000 euro, perché uno smartphone costa intorno ai 2.000 euro e i piccoli tra le 700/800 euro”. Come ci riuscivano lo spiega un altro pentito: i droni partivano “di notte, con il buio, e per evitare di essere intercettati dal sistema di controllo, modificati attraverso un congegno che elude la barriera aerea. Al drone viene legato un lungo filo nero al quale è appesa una busta, sempre scura, all’interno della quale vi sono telefoni, schede telefoniche e barrette di fumo”. E siccome il drone fa rumore “deve esserci la compiacenza di qualche guardia penitenziaria”.

Insomma, soldi con la pala che tornano nelle tasche delle mafie e una nuova emergenza criminale. Secondo Gratteri potrebbe essere neutralizzata acquistando i jammer capaci di frenare droni e stanare cellulari. “Costano 60.000 euro l’uno e ne proposi l’acquisto: non sono stato ascoltato, dopo un mese sono iniziate le rivolte nelle celle. Non sappiamo se il Dap li acquisterà, potremmo iniziare a usarli nelle cinque o dieci principali carceri. I cellulari in carcere sono pericolosi: i boss li usano per restare attivi ed eludere la detenzione”.

Alcune recenti inchieste siciliane dimostrano che cellulari e carcere sono un binomio costante. Nello scorso novembre, la polizia penitenziaria agrigentina ha bloccato un drone che trasportava 8 telefonini all’interno della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” (Agrigento). Era il terzo tentativo, dopo marzo e metà ottobre. Nelle celle del penitenziario di Enna, nascosti tra i muri, sono stati scovati 4 cellulari, mentre nel maggio scorso al “Pietro Cernili” (Trapani), la penitenziaria ha trovato numerosi micro cellulari, adattatori Usb e memory card. Altri 4 smartphone erano nascosti dentro il water delle celle del “Pagliarelli” (Palermo).

Nelle inchieste della Dda di Catania emergono persino le comunicazioni tra detenuti e affiliati. Corrado Piazzese, arrestato per mafia, informa il “detenuto Eugenio Gulizzi, ristretto nel carcere di Cavadonna (Siracusa)” sulle recenti operazioni antimafia che avevano colpito duramente lo spaccio e portato agli arresti di alcuni affiliati. “… noi abbiamo avuto dei problemi… non lo so se l’hai saputo… Ieri sera ci hanno smantellato tutte cose…”. “Se fossi stato fuori io… puttana la miseria”, risponde Gulizzi, che era “a disposizione per assicurare, in carcere, ogni comfort ai neo arrestati: ‘Fammi sapere di cosa ha bisogno e gliela facciamo arrivare’”.

Alessio Toromosca, condannato in via definitiva per mafia e detenuto a Cavadonna, chiama un amico: “Mio fratello… da tanto ti dovevo chiamare sono senza telefono vita, sono stato con la speranza che mi facevano chiamare un po’ là… un po’ da quella parte”. “Ora lo hai procurato?”, chiede l’interlocutore. “Ora me lo sono comprato, sì!” replica Toromosca. “Com’è, sempre là sei?” chiede l’uomo. Toromosca: “Sempre a Cavadonna al blocco media sicurezza. C’era… che è uscito l’altroieri”. “È uscito? ma dov’è?”, chiede l’uomo. “Ai domiciliari è uscito con il braccialetto”, risponde il detenuto. “Davvero… non ha pubblicato niente”, aggiunge l’altro. E Toromosca: “No, perché il tribunale che non può usare social altrimenti lo tirano di nuovo”.

Poi ci sono le chiacchierate di Antonio Montagno Bozzone, detenuto per mafia a Caltagirone, che usa il cellulare per comprare armi e riscuotere i soldi. “È da una settimana che ti vengo dietro, perché io non ho voluto chiamare a nessuno, perché ho avuto la parola con te, com’è finita per quel discorso? (…) Mi avevi detto che un paio di motorini parcheggiati li avevi, dammene uno e poi le cose che ti do te vai a prendere un altro”, dice Montagno Bozzone al suo interlocutore. “Motorini” sta per “armi”. E poi la minaccia al suo pusher per recuperare “i crediti dei suoi debitori”: “Ti dico una cosa sola, entro oggi, o procurati tutti i soldi che ti devono dare le persone, fino all’ultimo centesimo, ci spari, li ammazzi, non mi interessa, dopodomani sei rovinato, (…) entro due giorni te ne devi andare anche da casa perché ti levo anche la casa, vammi a cercare tutti i soldi dei cristiani”.

Evidenze di una realtà negata da Andrea Delmastro, sottosegretario al ministero di Giustizia, che l’altroieri, durante un dibattito in cui era presente Gratteri, ha detto: “In Italia il mafioso vive come un topo sottoterra e quando viene preso vive come un topo all’interno di una prigione”. Magari.