di Wahid Rahimi*
L'Espresso, 5 aprile 2020
Ero un agente di polizia a Ghazni, in Afghanistan, una delle province più pericolose del paese. Il mio lavoro era proteggere la sicurezza della mia gente. Poi noi membri delle forze armate siamo diventati il bersaglio degli estremisti. I talebani mi hanno minacciato tre volte, le prime due volte mi sono fatto forza, mi sono detto che fosse giusto restare a casa mia, resistere e andare avanti. Ma l'ultimo avvertimento era serio, molto serio, e sono scappato. Ogni persona ha una ragione per lasciare il proprio paese. Io, per esempio, ho venduto tutto quello che avevo per arrivare qui, in Europa. Ho venduto per pochi soldi un pezzo di terra lasciata da mio padre, e i mobili, e un gioiello di mia madre. Per questo per noi, come ci chiama l'Europa? Profughi, rifugiati, come volete, per noi tornare indietro non è possibile.
Quel Wahid lì, quello che aveva una vita dignitosa, che sembrava ancora un essere umano ti direbbe che la paura dell'epidemia si combatte innanzitutto prendendosi cura di chi hai accanto. Perché vedete in Afghanistan i villaggi nelle valli possono distare ore di cammino dal primo centro medico. Che non è necessariamente un ospedale, è una stanza, un baraccone, un'unità mobile di qualche generosa organizzazione non governativa. Sono i luoghi in cui di solito se ti sparano, o se sei capitato per caso e per sfortuna sulla linea degli scontri armati, o se eri sulla traiettoria di un attentatore suicida, ti stabilizzano e poi inizia la tua corsa verso un vero ospedale. La risposta del Wahid ancora afgano è: affronteremmo la paura del contagio con la consapevolezza di dover lasciar morire qualcuno. Semplicemente perché non abbiamo ospedali da raggiungere.
Quando sono arrivato in Grecia pensavo che qualcuno si sarebbe preso cura di noi, ma così non è stato. Oggi la mia casa è una tenda. La definirei una tenda senza possibilità come la mia vita.
E da qui risponde il nuovo Wahid, il profugo. Non vivamo come persone normali, ogni giorno che passi in un campo come questo è un passo verso la condizione animale. Ho comprato un pezzo di plastica per costruire una specie di tetto per ripararci dal vento e dall'acqua in caso di pioggia, di notte se ho bisogno di un bagno, cammino dieci minuti nel buio, sperando che il bagno chimico non sia intasato come gli altri.
Non abbiamo elettricità, perciò non abbiamo acqua calda. Ci laviamo tutti - e tutti significa uomini donne e bambini - con l'acqua fredda all'esterno delle nostre tende. Ogni giorno ci mettiamo in fila per un pezzo di pane, e se siamo pazienti, cioè se nessuno grida e litiga, riusciamo a portare un pasto nella tenda. Ma per il dottore non c'è nessuna fila. Bussiamo alla porta della responsabile del campo e ci dice che non ci sono medici, semplicemente non ci sono. I più fortunati riescono a trovare degli antibiotici per i bambini, che quando piove si ammalano, hanno la tosse, non respirano di notte e quando si fa buio e qui non c'è altro che silenzio sentiamo solo bambini e vecchi tossire. Camminiamo nelle acque di scolo, i bambini giocano in mezzo ai topi. I bagni sono pieni di escrementi. L'acqua delle docce, quando funzionano, è inquinata. I bambini talvolta bevono acqua tossica e soffrono di diarrea.
Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L'Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole
Il virus in cui viviamo ogni giorno si chiama in un altro modo, non uccide con la polmonite ma ci sta uccidendo piano piano, perché ci ha reso animali.
E questa è la risposta del nuovo Wahid, del profugo che non vive più come un essere umano. Sono qui da cinque mesi e ancora provo a lavarmi, a farmi la barba, a restare pulito come un uomo degno.
Ma sento che sto perdendo la speranza. Penso che per voi non sia possibile sentire quello che noi sentiamo. Se arrivasse qui il virus? Se arrivasse qui il contagio, dove potremmo nasconderci? Come proteggeremmo i bambini, gli anziani? Non potremmo, tutto qui. E in questo non c'è molta differenza rispetto alle sorti degli afgani in Afghanistan. Qui certo non ci sono autobombe, ma ugualmente se ci ammalassimo aspetteremmo di morire, credo. La differenza è che siamo in Europa. E a volte quando sento parlare di disinfettanti e guanti mi viene da ridere. Mi guardo i piedi, sono in ciabatte nelle acque delle condutture che arrivano dai bagni e se sento nominare le precauzioni per il virus penso sia una presa in giro. Altre volte mi sento molto triste. Mi dico, basta un caso, solo uno, qui e siamo tutti morti. Prendetevi il tempo di avere paura per la vostra salute e per quella dei vostri cari, ma pensate anche a chi come noi non ha informazioni, né acqua, né tantomeno medicine.
Non siamo arrivati qui per minacciare la vostra società, la vostra cultura. Siamo arrivati qui perché la felicità delle persone è in fondo una cosa semplice, e spesso significa un tetto, un pasto caldo, non avere paura di essere uccisi. Ora siamo qui e non possiamo fare né un passo avanti, né uno indietro. Se potete, pensate anche a noi.
*Richiedente asilo a Samos (a cura di Francesca Mannocchi)