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di Luca Liverani


Avvenire, 16 novembre 2019

 

Nella Giornata mondiale dei poveri non dimentichiamoci dei tanti poveri dietro alle sbarre. Dall'Ispettore generale dei cappellani delle carceri un appello a tutti i confratelli e ai volontari. Per don Raffaele Grimaldi il mondo di fuori "deve imparare a coniugare giustizia e misericordia, se no è vendetta".

Ma precisa che l'Appello coinvolge anche le persone detenute: a loro viene chiesto di aiutare il Papa. Come? "Con la preghiera, per sostenerlo nelle difficoltà che attraversa per le sue scelte pastorali. Perché ricordiamoci che Dio ascolta di più la preghiera degli ultimi".

 

Don Grimaldi, la sua lettera ai cappellani delle carceri chiede di "far crescere di più la consapevolezza che anche nelle nostre carceri sono presenti i poveri, gli emarginati, gli scartati, i senza voce, i bisognosi di essere accolti"...

È così. All'interno delle nostre carceri abbiamo tanta povertà. Anche il mondo penitenziario è interpellato dalla Giornata mondiale dei poveri. Ma il sottotitolo della lettera è "Giornata di preghiera nelle carceri per papa Francesco". Saranno i poveri ad innalzare una supplica per essere vicini a Francesco, che continuamente chiede "non vi dimenticate di pregare per me". Sappiamo che il Pontefice vive delle difficoltà causate dalle sue scelte pastorali. E noi gli siamo vicini perché sappiamo la sua attenzione verso i poveri, i carcerati, gli scartati. È una carezza che tanti detenuti vogliono dare al Papa, per ricambiare la sua attenzione. Un rapporto che si ribalta: nella giornata dei poveri sono loro che pregano per aiutare il Papa. Certo, i detenuti non possono fare molto. Ma sappiamo che la preghiera produce i suoi effetti. E quando è innalzata dagli ultimi, da chi è rifiutato dalla società, è ancora più ascoltata da Dio.

 

Il Papa proprio ieri ricevendo i penalisti ha detto che "il carcere deve sempre avere una finestra"...

Per dare un orizzonte, una prospettiva. Quante volte papa Francesco ha detto che non dobbiamo togliere alle persone in carcere la speranza di poter ricominciare. E il lavoro di noi cappellani. Certo, sappiamo che in carcere non ci sono solo poveri, ma persone che hanno abusato, spacciato droga, calpestato la dignità delle persone, ammazzato.

 

Spesso la società è diffidente verso il nostro ministero: "Ma che andate a fare in mezzo a quei delinquenti?".

Noi entriamo come portatori di speranza, per coniugare giustizia e misericordia, perché senza la misericordia la giustizia rischia di essere vendetta. Francesco dice che "bisogna ripensare sul serio l'ergastolo". Già il 14 settembre, quando ci ha ricevuti a San Pietro con l'Amministrazione penitenziaria, il Papa ha parlato dell'ergastolo come di un problema da risolvere. Dopo trent'anni di carcere una persona non è più la stessa. La gente invoca sicurezza, ma noi siamo chiamati a educare le nostre comunità alla misericordia, che rende più umano il mondo.

 

Tra l'altro umanizzare il carcere è anche conveniente...

Sì, perché abbatte radicalmente la recidiva. Il Papa mette in guardia dal giustizialismo, dall'idolatria della pena. Il Magistero non chiede buonismo, non banalizza il male commesso. La misericordia offre alla persona detenuta la possibilità di ricominciare, pur senza cancellare quello che ha fatto. Chi sbaglia deve prendere coscienza del suo errore. Ma gli va comunque tesa una mano per aiutarlo a fare il primo passo, a rialzarsi. Senza dimenticare oggi i troppi detenuti in attesa di giudizio. Dopo mesi o anni di carcerazione preventiva, sono tanti quelli assolti. Ma chi finisce in carcere perde la sua dignità, rimane marchiato, viene malvisto e costretto ad affrontare una sofferenza morale. I processi spesso sono mediatici. Ma per le assoluzioni non c'è lo stesso risalto.