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di Stefano Filippi

it.clonline.org, 13 settembre 2023

Le violenze, la camorra, l’abbandono. E l’intervento dello Stato: “Finalmente, ma non basta. Occorre uno sguardo nuovo su quei ragazzi”. Parla Giovanni Iovinella, in prima linea nel carcere minorile di Nisida. Giovanni Iovinella - ma tutti lo chiamano Felice - Caivano la conosce bene. Da tempo aiuta un ex detenuto, Bruno Mazza, fondatore dell’associazione “Un’infanzia da vivere” che dal 2008 è attiva nel Parco Verde del sobborgo di Napoli. “A Caivano le strade e le palazzine sono tutte uguali e quando vado a trovare Bruno capita di perdere l’orientamento”, dice. “A quel punto sbucano dal nulla tre scooter. Uno dei conducenti mi chiede dove devo andare. Mi scortano, uno davanti e due dietro. A destinazione suonano, si accertano che non abbia raccontato bugie, salutano e se ne vanno. È così che la malavita controlla il territorio. Hanno sentinelle agli angoli delle strade e sui tetti, ragazzi pagati 50 euro al giorno soltanto per tenere gli occhi aperti e segnalare le auto di carabinieri, poliziotti e intrusi. Nient’altro”. E chi li schioda questi? “Soltanto un lavoro dignitoso”, risponde Felice. “E qualcuno che li guardi con occhi diversi”.

Iovinella non è un educatore né un assistente sociale. È un architetto che da anni frequenta come volontario il carcere minorile di Nisida, piccola isola al largo di Posillipo, dove insegna ai ragazzi come si eseguono restauri e lavori di muratura in un laboratorio edile interno. Si trovava nel penitenziario anche quando vi è stato rinchiuso il diciassettenne reo confesso dell’omicidio di Giovan Battista Cutolo, il musicista ucciso il 31 agosto in piazza Municipio a Napoli. “Ero lì con tutti i miei pensieri di giustizia giusta e pena esemplare. Poi me lo sono visto davanti, un ragazzo con il mio stesso cuore. Come stare con lui e con quelli come lui? Bisogna poterli accompagnare. Da giovane ho fatto ammattire mia madre. Sono stato cambiato dallo sguardo e dalla compagnia di un professore che ha preso per mano le teste calde come me facendomi incontrare l’Unico che dà senso alla vita”.

Il Parco Verde di Caivano è figlio di uno Stato assente. Il quartiere fu edificato dopo il terremoto del 1980 per accogliere gli sfollati di Napoli. “Costruito e abbandonato”, racconta Iovinella. “Non ci sono servizi pubblici, ambulatori, centri sportivi, luoghi di ritrovo. L’unica scuola, un istituto comprensivo, è stata aperta meno di dieci anni fa. La preside, Eugenia Carfora, al mattino fa il giro della zona per raccogliere dalla strada gli assenti e portarli in aula”. Ha letto il “decreto Caivano” approvato dal governo dopo la visita della premier Giorgia Meloni? “Sì, finalmente lo Stato interviene. Ma non può bastare. Mi ha fatto tornare in mente un’immagine citata da don Giussani, quella di migliaia di uomini intenti a costruire un ponte per unire la terra al cielo. Uno sforzo “grande e nobile, ma triste” perché la sproporzione è incolmabile dall’uomo. Del resto, dopo il decreto, in pochi giorni ci sono già state due “stese”“, cioè le sparatorie dimostrative della camorra.

Che cosa possa servire, Iovinella lo spiega per esperienza: “L’ultima volta che ho visto Mazza, mi ha detto: “Architè, sono venuti in tanti ma nessuno ha parlato con noi. A me va bene tutto, ma facciamolo assieme”. Lo Stato deve implicarsi con queste realtà. Nel cuore del Parco Verde l’associazione di Bruno ha realizzato un campo da gioco: calcetto, basket, pallavolo. Il suo ufficio è in un vecchio container donato da un’azienda di trasporti che lo usava come biglietteria. Ogni giorno almeno 15 mamme lo puliscono gratis: è il loro modo per ringraziare chi toglie i figli dalla strada. Come Bruno ci sono la preside Carfora, don Patriciello, ma anche società di formazione come la Consvip e gli Iefp (istituti di istruzione e formazione professionale) che avviano al lavoro i ragazzi che non vogliono più studiare. Mentre in Lombardia, e penso in altre regioni, sono considerati istituti scolastici a tutti gli effetti, da noi sono scuole di serie B, dove “far fare qualcosa ai ragazzi” purché non stiano per strada. Invece sono luoghi in cui quegli stessi giovani scoprono di “valere”, avendo a che fare con adulti che li prendono seriamente a cuore e non perdono di vista la loro umanità. Fanno capire che il lavoro è scoperta di sé. Dovreste vedere come impastano la pizza i ragazzi di Bruno”.

Formazione, studio, lavoro. “Qualche anno fa”, racconta Felice, “il direttore del carcere di Nisida mi mandò un ragazzino che non voleva fare nulla. La prima volta che lo portai nel cantiere, mi disse: “Feli’, ricordati i patti, io non devo fare niente”. E io: “Alfo’, pensa solo a starmi vicino”. A un certo punto prendo scopa e paletta per raccogliere le cicche di sigarette. Una volta, due, tre. Un certo giorno entra anche lui nel capannone, prende gli attrezzi e mi dice: “Feli’, tu cominci di là e io di qua, vediamo chi finisce prima”. E quando un ragazzo da un traliccio ha gettato a terra un mozzicone, lui si è infuriato: “Guarda che io sto lavorando per te”. Così ha scoperto il valore del lavoro e della sua dignità, per sé e per gli altri. Ma il lavoro dev’essere vero, dignitoso, con la possibilità di sperimentare il bene e il bello in una compagnia umana. Se non spieghi le ragioni del gesto, se non educhi la persona, puoi dare anche 100 euro al giorno a un ragazzino, ma prima o poi tornerà a fare la sentinella per la camorra”.