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di Francesca Barra

L’Espresso, 15 dicembre 2023

“La mia libertà ha finalmente una data precisa. Per me coinciderà, dopo vent’anni di detenzione, con il riacquisire la normalità e magari formare una famiglia”. A parlare è Davide Mesfun, di origini napoletane. L’ho conosciuto in regime di semilibertà, mentre cucinava per me e per i ragazzi dell’Associazione Kayros di don Claudio Burgio a Milano. È imponente quando si avvicina e in naturale apertura con gli estranei: ha voglia di condividere, ha fame di vita, di cinema, di arte. Fin da quando era minorenne è entrato e uscito dal carcere.

In quegli anni non esisteva nemmeno lo smartphone e durante le sue prime dodici ore di permesso ha scoperto un mondo diversissimo, quasi come fosse risucchiato in un film di fantascienza: “Tutti con le teste abbassate verso quella scatolina”. Il mondo si era evoluto, in carcere c’era un altro ritmo. Oggi è uno chef, un attore e un regista teatrale, ma nel passato ha accumulato diversi reati: rapine, spaccio, riciclaggio.

“Sono stato salvato dal teatro, perché mi ha ripulito, mi ha permesso di sfogarmi, di prendermi meno sul serio, di recuperare il me ragazzino appassionato, sportivo. Quando dalla strada si vedono le mura di un carcere si pensa che i detenuti abbiano molto spazio a disposizione. Invece viviamo in un corridoio, in cattività, in una cella con altre persone che parlano sempre delle stesse cose: pene, incontri con famigliari, avvocati. Viviamo la condizione del gambero: sembra che vada avanti, ma cammina all’indietro. Incontrare persone che vengono da fuori è salvifico: ti nutri di esperienze che in carcere non farai mai più e quel contatto ti rende migliore, ti fa vedere te stesso in modo diverso”.

“Quando passi mezza vita in carcere, sai che nessuno ti riconoscerà quando ti rivedrà. Ecco perché c’è una recidiva così alta: se esci e non sei più nessuno per la società, nessuno ti offre una seconda possibilità, se non chi è uscito già prima di te ed è tornato a delinquere. Un altro aspetto brutale è l’assenza di intimità e sentimenti. Ho sei ore di colloqui al mese: se sommi le ore, sono più o meno due giorni in totale in un anno”. “Ho lasciato mia sorella quando aveva 17 anni, l’ho ritrovata durante un colloquio in carcere a trentasette. Non ci sono specchi in cella, ho capito quanto mi fossi trasformato anche io solo guardando lei”.

“Forse ci sarà qualcuno che mi dirà che non lo merito l’amore per tutto ciò che ho causato, ma sono una persona diversa grazie al modo in cui ho scelto di spendere il mio tempo in carcere. Ho studiato cucina quando ero ragazzo e qui cucinavo anche duemila pasti al giorno. E ho fatto teatro. Ho iniziato a dirigere spettacoli, ad avere una compagnia tutta mia, a scrivere, a esibirmi fuori dal carcere, anche grazie al professore Alberto Giasanti dell’Università degli Studi Milano-Bicocca che ha creduto nel mio lavoro, ad aiutare i ragazzi che somigliano a me da giovane, quando ho scelto la strada sbagliata”.

Un giorno Davide è andato a pulire le celle nel carcere minorile “Cesare Beccaria” e si è paralizzato: stava pulendo la sua cella. L’ha capito perché ha riconosciuto il paesaggio che guardava ogni giorno quand’era rinchiuso lì da ragazzino Oggi che ha finalmente trovato la sua finestra senza sbarre ha deciso di mostrarla a chi pensa di non meritare niente di più e niente di meglio.