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di David Romoli

L’Unità, 23 ottobre 2024

Il decreto presentato ieri in Consiglio dei ministri sottraeva al Tribunale di Roma le decisioni sui migranti deportati in Albania, ma Mattarella ha minacciato: “O questa parte salta o non firmo”. Ieri a metà pomeriggio il presidente della Repubblica non aveva ancora potuto leggere il decreto con la lista dei paesi considerati sicuri che il governo dovrebbe emanare. Il testo era fermo a palazzo Chigi e questo, data la tensione e le complicazioni che avevano accompagnato 24 ore prima la gestazione del testo, inevitabilmente ha destato qualche sospetto su possibili tentativi di far rientrare dalla finestra, magari tra le righe, quel che la presidenza della Repubblica aveva cacciato dalla porta il giorno prima. Il decreto illustrato lunedì sera dal sottosegretario Mantovano e dai ministri Nordio e Piantedosi non è quello a cui miravano la premier e il Governo.

C’è solo la metà inerente alla trasformazione in norma primaria invece che secondaria, cioè amministrativa, della lista dei Paesi considerati sicuri, portata da 22 a 19. Manca la parte che riguardava le procedure. L’ha bloccata il Colle nel corso di una trattativa a tratti molto tesa. I contenuti procedurali non sono noti e la consegna del silenzio è materia rigida sia a palazzo Chigi che al Quirinale. Di certo però si trattava di norme che avrebbero permesso di sottrarre alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma il giudizio sui trasferimenti in Albania nel quadro dei rimpatri accelerati. Il Colle si è messo di mezzo, la maggioranza ha provato a insistere e a forzare, poi ha capito che si sarebbe arrivati a uno scontro frontale con il presidente e ha preferito arretrare. Nel decreto è rimasta solo la parte meno aggressiva e di fatto a forte rischio di rivelarsi del tutto inoffensiva, data la prevalenza codificata delle norme europee su quelle dei singoli Stati.

Anche così, dunque al netto di possibili tentativi di reintrodurre nel testo quelle norme procedurali sulle quali grava il pollice verso di Mattarella, il decreto desta dubbi formali non ancora del tutto risolti. Necessitano i requisiti di necessità e urgenza, e come si fa a considerare una normale sentenza del Tribunale di Roma evento tale da giustificare una procedura necessaria e urgente? La firma del capo dello Stato, necessaria per emanare il decreto, è probabile ma non ancora scontata. Per decidere il presidente aspetta di leggere ed esaminare nel dettaglio il testo. Mattarella è orientato a firmarla ma solo se, come si aspetta, il decreto si limiterà alla lista dei 19 Paesi.

Non è la prima occasione di tensione anche alta tra il Colle e il governo Meloni, anche se quasi sempre gli incidenti sono stati tenuti quanto più nascosti possibile. Ma è la prima volta che un provvedimento importante del governo sbatte contro la blindatura del Colle. In ballo c’è la divisione dei poteri e Mattarella non ha alcuna intenzione di legittimare un precedente che permetterebbe al governo di rimuovere i magistrati che infastidiscono, cosa peraltro ben diversa dal ripristinare quei confini tra poteri dello Stato che la magistratura stessa ha più volte oltrepassato nei decenni scorsi.

Anche se la firma del presidente ci sarà, la vicenda non sarà affatto conclusa. Prima o poi il governo dovrà per forza imbarcare nuovi migranti alla volta dell’hotspot albanese e a quel punto saranno i magistrati di Roma a scegliere tra l’ignorare un decreto che ritengono sbatta con la norma europea sancita dalla sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre oppure rivolgersi alla Consulta perché dirima la vicenda. Nel primo caso, però, sarebbe probabilmente il governo, che ieri ha dato mandato agli avvocati del Viminale per il ricorso in Cassazione contro la sentenza di Roma, a ricorrere alla Corte costituzionale.

Neppure sul fronte politico la tempesta si placherà presto. L’opposizione reclama la presenza in aula della premier per un’informativa e quanto il passaggio sia delicato è dimostrato dalla derubricazione dei festeggiamenti del secondo anno di governo minore, che dovevano essere fragorosi, a occasione minore, celebrata dalla premier con un paio di anonimi messaggi video. Troppo imbarazzante l’annunciata e poi cancellata conferenza stampa, nella quale le domande si sarebbero concentrate sull’Albania ma altrettanto può dirsi di un eventuale dibattito in Parlamento. Il capo dello Stato ha di fatto imposto un brusco abbassamento dei toni e ordinato di mettere la sordina alle polemiche contro la magistratura. In conferenza stampa, dopo le dichiarazioni di fuoco dei giorni precedenti, la premier non avrebbe potuto onorare l’impegno e non potrà farlo neppure se sul tema affronterà il Parlamento. Ma il semaforo rosso del Colle implica una conseguenza in più, non direttamente legata ai rimpatri o all’immigrazione. Mattarella ha dimostrato nei fatti quanto sia importante e necessaria la presenza di un presidente della Repubblica non asservito ai voleri della maggioranza e il precedente, non unico però mai così netto, peserà se mai si arriverà a un referendum su quella elezione diretta del premier che non a caso la premier non sembra avere più alcuna fretta di varare.