di Ilaria Carra e Rosario Di Raimondo
La Repubblica, 23 ottobre 2024
“Qui non è Mare fuori, e la libertà spaventa più della prigione”. Siamo entrati nel carcere più sovraffollato d’Italia. Un detenuto su tre ha meno di trent’anni, la metà ha una dipendenza da alcol o droga. “Io voglio fare il muratore”. Mahmud ha vent’anni ed è di un paese vicino a Il Cairo. È arrivato in Italia dopo essere stato respinto quattro volte. Ha pagato il viaggio in barcone quindicimila euro. Da Lampedusa, un lungo pellegrinaggio: Napoli, Taranto, Milano. Ora è detenuto al primo braccio di San Vittore. Chiama l’agente penitenziaria “madre ispettrice”, sostiene di essere dentro solo per un “calcio” sferrato a un ucraino e “da otto mesi sono qui a fare niente. Ma io voglio fare il muratore, sono bravo!”.
Sulla parete della biblioteca qualcuno ha scritto: “A volte la libertà spaventa più della prigione”. L’ottava e ultima regola elencata sulla lavagnetta raccomanda: “Il tempo è prezioso”. Ma il tempo qui passa, giorno dopo giorno, e i ragazzi perduti di San Vittore non sanno che sarà di loro. Nel carcere più sovraffollato d’Italia le presenze totali sono più di 1.100. Gli uomini sono un migliaio. Quasi un terzo di loro ha un’età fra i diciotto e i trent’anni. Il 75% è di origine straniera. In 650 hanno una dipendenza da droga o alcol o entrambi, 220 i pazienti psichiatrici certificati. E ogni semestre “continuano a crescere”. Sono qui soprattutto per reati di spaccio, risse, lesioni, tentati omicidi: è un attimo, e durante la discussione si tira fuori il coltello. Il dramma è rinchiuso in poche parole che ripetono in molti: “Non hanno prospettive. Tu accogli ma poi vanno a sbattere”.
Prima o poi usciranno, e nessuno potrà aiutarli. Avranno bisogno di cure, ma non avranno i soldi per essere seguiti in un centro specializzato. Vorranno un lavoro, ma saranno senza documenti. “Non ci sono alternative al carcere”, è l’altra impietosa diagnosi. Il paradosso è che per alcune di queste persone il carcere è la prima e forse unica possibilità di contatto con un medico, uno psichiatra, qualcuno che ascolti.
Allora rieccoci nella biblioteca, e per un attimo non sembra nemmeno di essere in una casa circondariale. C’è un grande tavolo, e sul tavolo tante figurine che rappresentano volti e paesaggi. La professoressa del Politecnico Chiara Ligi e le sue collaboratrici spiegano: “Questo è un kit per creare storie, per cogliere stati d’animo, emozioni”. Queste storie inventate finiscono in un quaderno. Ilyas, vent’anni, inizia a parlare dei suoi desideri: “Vi leggo la mia piccola storia. Nel giorno più bello della mia vita ho incontrato una ragazza. Dopo un anno ci siamo sposati, siamo andati in viaggio di nozze a Miami, dopo un mese siamo tornati ed è nata nostra figlia. La famiglia è al completo”. Il giovane Wassim sogna a occhi aperti: “Mi sveglio la mattina e bevo il tè. Poi vado al mare a pescare il polpo, lo faccio alla griglia, torno al mare per fumare una sigaretta e ci torno la notte per andare a pescare”. Dalla finestra con le sbarre arriva un bellissimo sole ma qui non è Mare fuori.
Giù al quinto braccio, che accoglie i “nuovi giunti”, ogni giorno arrivano in media venti detenuti in più, certi giorni trenta. La difficoltà è sistemarli. In quell’area vive anche chi è a rischio di autolesionismo. Dalla parte opposta, celle che “nei sogni” sarebbero singole ospitano tre detenuti: un letto a castello, un altro lettino a fianco, un tavolo. Un ragazzo seduto sul materasso fuma e guarda a terra. Un altro cerca di ordinare quel poco di spazio che gli hanno dato. E questi si ritengono pure fortunati: almeno non sono finiti negli stanzoni da otto posti. In intere sezioni, un solo poliziotto penitenziario ha la responsabilità di ottanta detenuti. Di divise, in questi casi, ne servirebbero almeno un paio. Le assunzioni sono arrivate ma sono bastate a rimpiazzare chi è andato in pensione. Due raggi di San Vittore sono ancora chiusi: se venissero riaperti garantirebbero respiro e posti in più ma bisogna fare i conti con la burocrazia.
Nella cappella oggi si ricorda Pasquale Del Mastro. Si è impiccato a 44 anni lo scorso 11 ottobre. Un mese prima, un ragazzo era morto carbonizzato per un incendio in cella. Sul foglio per la preghiera rivolta al quarantenne si legge: “Pasquale era triste, malato di disperazione. La vita era stata dura con lui”. Da San Vittore gli augurano “una vita senza sbarre e senza dolore”. Celebra la cerimonia padre Danilo, uno dei due cappellani. A fargli da chierichetto, da qualche tempo, c’è Alessandro, 42 anni e un rosario al collo: “Sono in galera per maltrattamenti in famiglia. Non vedo i miei figli da un anno e mezzo. C’ho provato a salvarlo, Pasquale. Viveva nella cella accanto alla mia. Ho sentito le urla dei suoi compagni quando l’hanno trovato. Non ho potuto fare niente. Qui è dura. Basta non ricevere risposta a una telefonata per buttarti giù. E i ragazzi... arrivano perché si ammazzano di botte per niente. Io li vedo persi”.
Conosciamo un altro Alessandro, anche lui 42enne: “Sono dentro per spaccio, rapina, estorsione. A giugno esco, ma con i reati vado in pensione. Io la penso così: sbagli, paghi, finisci. Voglio tornare a fare l’operatore socio sanitario”. Nonostante l’età vive nel reparto per giovani adulti: “Sì, seguo i detenuti più piccoli, qui faccio l’educatore. Mi chiamano zio, papà...”. Anche perché il carcere, dice Vincenzo, 57 anni, “è diventato una discarica sociale”, un modo duro per dire che è l’unico posto ormai capace di accogliere chi ha un problema, un disagio.
Però Antonio, sessant’anni, 18 di crimini, entrato - l’ultima volta - il 2 dicembre del 2022, nei giovani vede ancora una speranza. La vede pure in se stesso: “All’inizio è stata dura. Il cervello si offusca, non sai cosa stai facendo. Finché non inizi a star bene. Succede quando hai il coraggio di dire: sì, sono stato un delinquente”. Da lì si può solo risalire.
A San Vittore è nato uno spazio permanente dedicato all’arte contemporanea. Dicono che da questo corridoio passò Vallanzasca per evadere. Lo spazio si chiama ReverseLab ed è un’opera collettiva, una raccolta di “frammenti espressivi”. Su un post-it si legge una frase che farebbe bene ripetersi ogni tanto: “Tutti sbagliamo”.