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di Susanna Ronconi*

Il Manifesto, 23 ottobre 2024

Nonostante qualche apprezzamento su poche buone leggi, nessun dubbio che il Rapporto dello International Independent Expert Mechanism to Advance Racial Justice and Equality in Law Enforcement - gruppo delle Nazioni unite per il superamento del razzismo nel sistema poliziesco e giudiziario - rappresenti una chiara bocciatura dell’Italia. Nel maggio 2024 il gruppo di esperti Onu ha visitato il nostro paese, le sue prigioni e i suoi Cpr, ha parlato con parlamentari, operatori istituzionali e associazioni: queste visite sono finalizzate a fare il punto sulle pratiche discriminatorie e razziste nel campo del law enforcement, con attenzione alla popolazione afrodiscendente, e soprattutto alla valutazione delle politiche italiane mirate a contrastare queste pratiche, nonché alla loro rispondenza agli standard internazionali.

Prima di arrivare a una analisi delle pratiche discriminatorie e razziste riguardante le polizie, i tribunali e le carceri, il rapporto delinea un contesto generale di “razzismo sistematico e discriminazione razziale in diversi ambiti della società” e di “pratiche discriminatorie all’interno delle istituzioni pubbliche”, con un’enfasi contro le comunità afrodiscendenti. Che si tratti di hate speech (anche da parte di esponenti politici), di leggi restrittive (come quelle sull’immigrazione) che creano vulnerabilità e espongono alla violazione dei diritti umani fondamentali, di barriere nell’accesso al welfare o di sovra-detenzione degli stranieri, ci sono tre elementi trasversali su cui si basa la bocciatura dell’Italia.

Il primo, la mancanza di accountability, il fatto cioè che non ci siano procedure cogenti di responsabilizzazione delle istituzioni, tramite cui conoscere, denunciare, riparare e risarcire le violazioni. L’Italia non ha un Ente nazionale a protezione dei diritti umani come previsto dai “Princìpi di Parigi”, e realtà come gli osservatori Oscad o Unar sono deboli, inefficaci e a rischio di limitata indipendenza. Secondo, la mancanza di dati di monitoraggio, che consentano di individuare violazioni e responsabilità e valutare i progressi. Terzo, variabili culturali, come la mancanza di ri-attraversamento critico del passato coloniale e delle sue rappresentazioni, inclusa l’assenza di questi temi nei curricula scolastici.

Proprio nel campo del law enforcement, il Rapporto sottolinea un retaggio culturale che “continua a influenzare le pratiche di polizia, contribuendo a una sistematica profilazione etnica e a pratiche discriminatorie”, contro cui la formazione degli agenti si dimostra, nel merito, assente. Questo incide pesantemente sulla sovra rappresentazione degli stranieri, in particolare afrodiscendenti, tra i fermatə, i perquisitə, i denunciatə, gli arrestatə e gli incarceratə. La profilazione etnica da parte delle polizie viene denunciata dal Rapporto come “praticata in modo sistematico”, con la conseguenza anche di costruire un rapporto di sfiducia con le istituzioni e le polizie stesse. All’Italia manca, secondo l’Onu, un chiaro quadro normativo sui limiti nell’uso della violenza, e manca anche - unico paese dell’Unione europea - un ente non giudiziario, interno alle polizie, che rilevi le pratiche razziste e discriminatorie.

Sotto osservazione anche gli hot spot per i migranti, i respingimenti dei minori stranieri, e le attività di profiling e repressione correlate alle politiche delle droghe: un tema, questo, ripreso più volte dalle agenzie delle Nazioni unite, su cui il Rapporto - anche grazie ai rapporti-ombra di Forum Droghe, Harm Reduction International, Società della Ragione e altri - insiste, denunciando le condotte delle polizie italiane ai danni degli stranieri. Non mancano infine due pressanti inviti: contro la deportazione in Albania e contro l’intento di abolire o mitigare il reato di tortura.

*Il report dell’ONU e i rapporti-ombra su Fuoriluogo.it