di Lorenzo Priviato
Il Resto del Carlino, 23 ottobre 2024
Psichiatra Ausl accusato di omicidio colposo per avere abbassato il rischio, le versioni dei colleghi. In caso di detenuti a rischio di suicidio, “dobbiamo dare un occhio in più”, spiega al giudice Michele Spina un agente penitenziario, mentre in aula in diversi sgranano gli occhi. Seconda udienza del processo che vede imputato di omicidio colposo un 66enne psichiatra Ausl della casa circondariale di Ravenna (difeso dagli avvocati Guido Maffuccini e Delia Fornaro), in relazione al suicidio di un giovane detenuto cui, secondo l’accusa, aveva abbassato il rischio da medio a lieve. Giuseppe Defilippo, 23anni segnati da un’infanzia difficile, abuso di sostanze e precedenti tentativi di farla finita, fu trovato impiccato in cella il 16 settembre 2019.
Nella prima udienza aveva parlato la madre, che aveva fatto riaprire le indagini dopo un iniziale tentativo di archiviazione. Ieri ha testimoniato una dottoressa del Centro di salute mentale alla quale, in qualità di medico di guardia, dal cercare arrivò la richiesta di una visita urgente. Nel referto del 5 settembre (undici giorni prima del suicidio), il medico consigliava una maggiore sorveglianza e una valutazione psichiatrica a breve, ravvisando nel detenuto “una richiesta di aiuto per problemi di ansia, chiedeva una modifica della terapia per stare meglio”. Inoltre, aveva evidenziato “una potenziale condotta autolesiva mediante oggetti taglienti”, una eventualità che il ragazzo stesso le paventò come “reazione alla restrizione e al fatto di non riuscire a parlare con i familiari”.
La dottoressa era al corrente di un precedente ricovero per “assunzione incongrua di farmaci”, ma in quell’occasione non ravvisò “rischio suicidario, altrimenti - ha spiegato - avrei attuato altri presidi. Manifestava invece una progettualità, desiderava lavorare e riprendere in mano la sua vita”.
La guardia carceraria addetta alla sorveglianza ha poi spiegato che Giuseppe aveva un compagno di cella, anche con funzione di controllo. Eppure, secondo la successiva testimonianza di un altro medico che più volte lo aveva visitato, “il compagno era più depresso di lui, lo avevo segnalato al carcere e all’equipe medica”. Eventualità non emersa in fase di indagini, sebbene sostenuta dalla famiglia, parte civile con gli avvocati Marco Catalano e Marco Martines. Il medico Map (assistenza primaria) ha spiegato che spesso Giuseppe gli domandava benzodiazepine per curare l’ansia diurna, e così fece anche poche ore prima di togliersi la vita. Quel giorno, ravvisando “una flessione dell’umore, ma non scompenso psichico”, il medico Map chiese una nuova valutazione psichiatrica “urgente differibile” (7-10 giorni), ma non ci fu tempo di attuarla. La ricostruzione clinica dei giorni precedenti è tuttavia farraginosa.
Secondo il medico Map, la richiesta della collega del 5 settembre di alzare il rischio aveva trovato riscontro il 7 ad opera di un’altra specialista, e due giorni dopo l’odierno imputato - fin qui convitato di pietra al processo che lo riguarda - lo avrebbe abbassato da medio a lieve, cosa che avrebbe comportato “un abbassamento della vigilanza”. Ma ciò, al momento, non è emerso dal punto di vista documentale. Secondo la ricostruzione dell’avvocato Giacomo Garcea, legale dell’Ausl, chiamata come responsabile civile, il giovane entrò in carcere il 20 agosto con un rischio suicidario medio, che tre giorni dopo gli fu abbassato a lieve, non dal solo imputato ma dall’equipe addetta a questo tipo di valutazioni. Nei giorni successivi non vi sarebbe stato alcun nuovo innalzamento del rischio, che semmai il 9 settembre fu mantenuto lieve. Prossima udienza a marzo, ai consulenti il compito di fare chiarezza.