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di Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja

La Lettura - Corriere della Sera, 20 novembre 2022

La miseria, la meraviglia. Edoardo Albinati torna a Kabul vent’anni dopo il primo viaggio e un anno dopo la vittoria dei talebani. Con lui c’è Francesca d’Aloja, anche lei scrittrice.

EDOARDO ALBINATI - Sul volo Doha-Kabul siamo in cinque, l’aeroporto di Kabul è deserto.

FRANCESCA d’ALOJA - Siamo in Afghanistan per visitare alcuni presidi medici dell’Ong italiana Intersos. I messaggi che il primo wi-fi disponibile ci trasmette sono tutti allarmati e allarmanti: da quelli ufficiali, come l’Unità di Crisi della Farnesina, che “sconsiglia di recarsi in Afghanistan a qualsiasi titolo”, a quelli familiari: “Ma è pericoloso, state attenti!”. “Mi raccomando, tornate presto a casa...”. Il mio stato d’animo, oltre all’eccitazione di essere entrata in un Paese quasi off-limits, è di apprensione, forse più indotta che percepita. Chiamo Alberto Cairo che qui vive e lavora da trent’anni, per salutarlo, ma anche per farmi rassicurare, e lui lo fa, con il solito garbo. Certo, tutto ciò che ci circonderà nei giorni a venire sta lì a ricordarci di non abbassare mai la guardia, ma non posso nascondere quanto le paure iniziali si siano via via stemperate. Come sempre la presenza sul campo aiuta a calibrare le allerte, e alla tensione iniziale si è aggiunto un inesausto stupore per tutto ciò che i nostri occhi e le nostre orecchie sono riusciti a percepire: l’Afghanistan non somiglia a nessun Paese al mondo, i riferimenti occidentali che nel bene e nel male apparentano le nostre città, qui spariscono: percorrere le strade di Kabul (mai a piedi e sempre in automobile!) e ancor di più sconfinare nelle aree rurali, equivale a un viaggio nel tempo. La nostra avventura afghana comincia un venerdì, giorno festivo dedicato alla preghiera (il più esposto a rischi per via dei possibili attentati alle moschee); nonostante questo ci concediamo un giro in città, con le dovute precauzioni, e subito capiamo quanto anche il più banale spostamento qui diventi eccezionale: i posti di blocco delle milizie talebane sono ricorrenti, e malgrado i lasciapassare concessi a Intersos, l’accostarsi a giovani uomini barbuti con kalashnikov a tracolla mi provoca un brivido. Anche a questo ci abitueremo.

EDOARDO ALBINATI - In cima alla collina di Wazir Akbar Khan, penzola un po’ floscia l’immensa bandiera bianca dell’Emirato Islamico. È lì dall’agosto dell’anno scorso ma ha i bordi già un poco sbrindellati. Subito accanto, una piscina panoramica in stato di abbandono, protetta da reti metalliche e filo spinato, che ragazzini incuranti scavalcano per andare a sguazzare in un metro di acqua stagnante. Bambini e ragazzini ridenti sono, da sempre, i veri protagonisti di ogni racconto sull’Afghanistan.

FRANCESCA d’ALOJA - Ora ci spostiamo ai margini della città (meglio evitare il centro...), in uno dei posti più assurdi che abbia visto in vita mia: una vallata resa più vasta dal prosciugamento del laghetto che ne lambisce i contorni, attraversata insensatamente da motociclette sgangherate e ronzini al galoppo. Sullo sfondo un desolato luna park e una serie di chioschetti semiabbandonati dove i kabulesi erano soliti rifocillarsi durante la gita fuori porta. Pranziamo all’hotel Serena, un tempo rifugio degli occidentali, tuttora considerato un possible target e dunque iper-blindato (la qual cosa ci rassicura e ci inquieta al tempo stesso). Sembra di entrare in una base militare: controlli, scanner, perquisizioni. Di fronte al nostro sguardo perplesso ci spiegano che fino a pochi mesi fa l’albergo era davvero impenetrabile, gli sbarramenti da superare erano otto e sull’area volteggiava costantemente un elicottero di ronda. Questo va tenuto a mente quando si tenta di raccontare quel che accade qui, ricordando sempre quel che è accaduto prima, non dimenticando chi siamo noi e chi sono loro. Vedere, ascoltare, stare sul posto aiuta a diradare la nebbia che avvolge un tema così complesso, ma illudersi di capire fino in fondo è da stolti.

EDOARDO ALBINATI - Sul muraglione di cinta dell’Università di Kabul sta scritto: “Il Corano è il nostro libro, il Corano ci guiderà”. I quartieri più prestigiosi di Kabul consistono di grandi compound protetti da lunghe mura, ideali per dipingerci sopra slogan, murales, ritratti: passarci correndo in macchina è come sfogliare le pagine di un libro illustrato. Grandi pugni levati celebrano la vittoria del 15 agosto 2021, quando i talebani hanno preso il potere, rivendicando il loro trionfo come una liberazione (?): per capirsi, dal loro punto di vista, una specie di 25 aprile. Altrimenti chiamato the Change, il Cambiamento. Ma liberazione da chi? Dagli americani. La bandiera a stelle e strisce qui è il simbolo del male - combattuto e vinto. Negli spiazzi di polvere, ragazzi che hanno appena posato il kalashnikov giocano a cricket. Intere strade sono profilate o ridotte a strettoie o del tutto bloccate da gigantesche barriere difensive di calcestruzzo con sopra rotoli di filo spinato. Al termine della nostra missione, sacchetti di sabbia ne avremo contati a centinaia di migliaia, e una volta a Kandahar ceneremo a una mesta mensa (un tavolo da ping-pong) circondati da uno sbarramento di sacchetti - non si sa mai. Tra i talebani vanno molto i capelli lunghi, lisci e lucidi, tagliati pari sulle spalle. Per non farsi capire da loro chiamandoli con quel nome diventato famigerato nel mondo (“taleb” vuol dire “studente”, ossia “studente coranico”) chi parla inglese può adoperare la sigla Lha, Long-Haired Army - l’esercito dei capelloni.

FRANCESCA d’ALOJA - Senza permessi non potremmo fare il nostro lavoro, ma il ministero degli Esteri, pur avendoli già concessi, richiede formalmente di “vederci”. Richiesta paradossale, poiché varcata la soglia dell’ufficio, dopo una serie estenuante di controlli, nessuno dei presenti mi degna di uno sguardo, tutti fanno strategicamente in modo di evitarmi, idem durante l’incontro (si fa per dire) successivo, al ministero della Cultura. Formalmente riconoscono la mia presenza timbrando un foglio che mi consentirà di muovermi, ma come persona in carne e ossa io non esisto. D’ora in poi andrà così. Per tutta la durata del mio soggiorno afghano sarò quasi sempre l’unica presenza femminile in un contesto di soli uomini e raramente i loro sguardi incroceranno il mio. Circostanza, questa, che ha prodotto in me l’oscillante stato d’animo fra il sentirmi disprezzata e il sentirmi temuta. Il primo caso ha generato umiliazione, il secondo consapevolezza del mio potere. La rimozione di qualsiasi contatto fra uomo e donna (più volte mi sono trovata fra uomini che si stringevano la mano e addirittura si abbracciavano, senza ricevere nemmeno un cenno di saluto) è l’ammissione di quanto quel contatto possa essere potente. Di fatto quel divieto cancella il desiderio. Mi sbaglierò senz’altro, ma non credo sia il disprezzo o l’odio a paralizzarli, quanto piuttosto la paura. Delle donne, i talebani sanno poco o nulla.

EDOARDO ALBINATI - Sul terrazzo della guest-house di Intersos, protetto da un’incannucciata, stasera lo staff afghano ha organizzato una grigliata. Gli spiedini sono buonissimi, e le minuscole banane molto dolci. Faccio un rapido conto, siamo diciassette uomini, e una sola donna: Francesca. Lei normalmente ama la compagnia dei maschi, più di quella femminile, ma alla fine era imbarazzata e sopratutto si aveva l’impressione che, in effetti, fossero imbarazzati loro. Come soggiogati.

FRANCESCA d’ALOJA - Per le strade, di donne ne scorgiamo pochissime, tutte col hijab rinforzato dalla mascherina, ne vedremo (per modo di dire...) di più a Kandahar, roccaforte dei talebani, nascoste però sotto il burqa, come fantasmi nella folla. Dovrò coprirmi anch’io ogni qualvolta mi trovi all’esterno, comprese le terrazze protette dei nostri compound. Da una di queste vedo una donna passeggiare solitaria sul corrispettivo spazio del palazzo di fronte, alla luce discreta del tramonto. Cammina avanti e indietro, come un detenuto durante l’ora d’aria, mentre tutt’intorno echeggiano le voci dei muezzin.

EDOARDO ALBINATI - Quando sono stato qui vent’anni fa, Kabul era semidistrutta. Ma c’era speranza. Ora è tutta in piedi e sono spuntati nuovi edifici: ma il futuro appare incerto per non dire tetro. Il traffico caotico di Kabul più che vitalità indica frenesia. Quella comunicata e celebrata dagli Energy Drinks, i cui cartelloni pubblicitari campeggiano ovunque. Possibile che sia tutto qui il lascito occidentale - la democrazia degli eccitanti?

FRANCESCA d’ALOJA - La sera, prima della chiusura, davanti ai negozi di fornaio si raccolgono gruppetti di donne. Si siedono per terra e aspettano di ricevere in elemosina il pane avanzato.

EDOARDO ALBINATI - La prima clinica di Intersos che visitiamo è poco fuori Kabul: Mirza Abdul Kadir, Basic Health Center, una specie di piccola ma efficiente Asl dove vengono visitate circa cento persone al giorno. Su cinquanta bambini, dieci risultano denutriti, ed è in fondo una media consolante visto che nel resto del Paese la curva si sta innalzando verso la drammatica percentuale del 50%. Il prossimo inverno sta arrivando come un incubo: fame, freddo, le patologie respiratorie, e poi le vecchie piaghe come il morbillo, che specialmente nelle aree remote del Paese resta la principale causa di morte tra i bambini. Alle pareti del presidio medico sono appesi ingenui e commoventi manifesti per incoraggiare alla vaccinazione, dove una siringa sorridente culla tra le sue braccia (?) un bambino felice, dopo averlo evidentemente salvato dal vaiolo o dalle malattie esantematiche. Oltre alla bilancia, per lo screening della malnutrizione viene usata una specie di fascetta o fettuccia da sarto tricolore avvolgendola intorno alle braccine esigue: se stringendola la ghiera si arresta sul rosso, siamo nell’area della malnutrizione, media o severa. Bustine iperproteiche serviranno a porvi rimedio. Restiamo ammirati dall’ordine e dalla calma che regna tra medici, parenti e pazienti.

FRANCESCA d’ALOJA - Facciamo una breve sosta al bar Cupcake. Due ragazze, col volto scoperto e truccato, sorseggiano un tè accanto alla vetrina. C’è addirittura la musica (dappertutto proibita). Sembra una piccola, inaspettata oasi di libertà. Il proprietario è un hazara gioviale e smaliziato, a cui chiediamo: “Ma non hai avuto guai?”. “Be’, sì, una volta è venuto uno di loro, e si è lamentato che ci fosse una donna sola a un tavolo, ma io gli ho risposto: questo è il mio locale e ci entra chi vuole”, al che pare che il talebano abbia detto “Ah, va be’, allora...” e si è allontanato. Chissà se è vero e, se è vero, quanto durerà.

“Sopravvissuti alla Kabul assassina?” mi scrive sarcastico e affettuoso Alberto Cairo a commento della mia telefonata precedente. Gli rispondo che siamo vivi e vegeti e che vorremmo venire a trovarlo, cosa semplice a dirsi, meno a farsi. Qui ogni spostamento deve essere previsto e organizzato con largo anticipo. Capiremo in seguito quanto la limitata libertà di movimento a noi concessa sia in realtà un privilegio che molti non possono permettersi. C’è chi, vivendo qui da anni, non ha mai visto quel che noi avremo modo di vedere in meno di due settimane. Dura, molto dura la vita dell’operatore umanitario, tanto lavoro e pochissimi svaghi (andare una tantum al supermercato rientra fra questi...), cene ordinate al telefono, porte blindate e vetri oscurati.

Il centro di riabilitazione motoria dalla Croce Rossa è un posto straordinario come straordinario è l’uomo che lo gestisce. Dopo trent’anni passati a rimettere in piedi mutilati di guerra, vittime di mine inesplose o di incidenti, il fisioterapista Alberto Cairo non ha perso l’entusiasmo nei confronti di un lavoro che onora ogni giorno nonostante i sopraggiunti limiti di età e l’amarezza per la pur comprensibile fuga, dopo il 15 agosto dello scorso anno, di otto delle dieci fisioterapiste che sono state faticosamente formate sotto la sua guida. Attraversiamo con lui i reparti di quella che assomiglia più a una fucina che a un ospedale: artigiani scalpellano, forgiano e plasmano materiali che si tramuteranno in mani, braccia, gambe. Qui non esistono restrizioni: le porte sono aperte a tutti - uomini, donne, bambini. Talebani e non.

Il 90% delle persone che lavorano qui sono state a loro volta dei pazienti: oltre ad aver recuperato un arto mancante, hanno guadagnato un’occupazione. Nell’ufficio che ospita l’archivio, Alberto ci mostra un foglietto con su scritto il numero dei presi in carico dal 1989 a oggi: 95.925, soltanto a Kabul. Se si aggiungono i dati dei sette centri dislocati nel Paese si arriva alla cifra impressionante di 230.000 persone che, grazie a Cairo, sono tornate a camminare.

EDOARDO ALBINATI - Lascia sempre di stucco l’ibridazione di elementi bellicosi con altri quasi comici o feriali. All’ingresso di un palazzo governativo sta di guardia un’autoblindo la cui torretta armata di mitragliatrice pesante è sormontata da un ombrellone da spiaggia. All’ombra di quell’accrocco il mitragliere dai lucidi capelli neri sulle spalle sorseggia l’ennesima tazza di tè. In giro per le strade affollate non vediamo uno straniero che sia uno. Tra le dieci del mattino e le tre del pomeriggio veniamo fermati otto volte a posti di blocco, dove però i controlli sono sommari: spesso i miliziani ci lasciano passare perché occupati a salutare affettuosamente qualche amico. Un altro residuo del recente passato è un ristorantino alla francese con un delizioso giardino interno: vuoto. Pranzare soli in quel giardinetto è un momentaneo sollievo ma al tempo stesso stringe il cuore.

Subito dopo violiamo le norme di sicurezza andando dove non dovremmo proprio andare: alla Moschea sciita Ziarat-e Sakhi, bersaglio ideale per gli attentati dell’Isis. A mente fredda, più tardi, ammettiamo di aver fathanno to una vera cazzata. Però era bella, la moschea azzurra, contro la montagna gremita di casette e il cimitero dove le tombe sono protette da grate di ferro.

FRANCESCA d’ALOJA - Nei centri medici Intersos che visitiamo, a Kabul come a Kandahar, fino alla provincia di Zabul, nel profondo sud del Paese, le donne lavorano accanto agli uomini. La sanità è forse il solo settore misto, segno che almeno le malattie sono democratiche. È una delle poche concessioni del regime, altrimenti severissimo nei confronti delle donne. È questo “il tema”, c’è poco da fare. Il redivivo ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio, istituito in sostituzione del ministero degli Affari Femminili, ha indotto molte a cambiare preventivamente i loro comportamenti, memori delle repressioni passate e poco inclini a credere alle promesse di cambiamento del nuovo governo. Di fatto le donne non possono più svolgere un lavoro (salvo poche eccezioni) né praticare sport, devono essere accompagnate da un mahram (uomo della famiglia o scelto dalla stessa) se si allontanano da casa, e alle ragazze è stato vietato quasi ovunque l’accesso agli studi secondari. Mai come in Afghanistan ho capito quanto la mia nascita sia stata fortunata.

Maryam appartiene alla generazione che ha creduto di poter ambire, anche se con difficoltà, a un futuro simile a quello dei suoi coetanei nati altrove. Ha diciannove anni, nata dunque a ridosso del primo spodestato regime talebano. Ha potuto studiare, iscriversi all’università, trovare un lavoro: “Sarei voluta andare a Londra per approfondire gli studi e poi tornare ad aiutare la mia gente”. L’avvento del nuovo regime ha cancellato vent’anni di conquiste ottenute superando infiniti ostacoli. 15 agosto 2021, la data spartiacque: “Ero al lavoro, in ufficio, mi chiama mia madre supplicandomi di correre a casa. Il mio primo pensiero è stato “come farò ad arrivarci vestita così?”, perché avevo una gonna al ginocchio e temevo che sarei stata picchiata per questo. Ho cercato invano un taxi, la città era nel delirio... ho cominciato a correre, presa dal terrore”. Una volta a casa, Maryam non è più uscita per i successivi due mesi, “e da quel giorno la mia gonna è nascosta nell’armadio”. Lei e la sua famiglia hanno tentato una sola volta di raggiungere l’aeroporto per fuggire. “Ma ci siamo spaventati, le strade erano piene di gente e di sangue...”. Partito il contingente americano la tensione è calata e Maryam ha cominciato ad accettare l’idea di restare: “Anche se molti miei amici sono riusciti a andarsene, e io sono rimasta sola”. La sua voce si spezza, e le lacrime che le scendono dagli occhi sono generate dalla tristezza ma anche dalla rabbia. “Questo non è un Paese per donne, non lo è mai stato...”. Viene spontaneo sperare che il cambiamento, il vero cambiamento, sarà promosso dai ragazzi come lei, diversi da quelli che li hanno preceduti se non altro per aver avuto nel frattempo accesso al più potente e inarrestabile veicolo di conoscenza, internet, del quale ancora possono disporre pur con le restrizioni (nessun commento, vietati i post sui social), e ci si chiede quanto a lungo un popolo di quaranta milioni di persone possa essere bandito dalla modernità.

EDOARDO ALBINATI - Chicken Street è (o forse era) la strada commerciale e turistica di Kabul, abiti, tappeti, pietre preziose, artigianato: i negozi ora sono deserti. Entriamo per curiosità o pietà da un antiquario che al nostro passaggio di stanza in stanza ci accende le lampadine, rivelando meraviglie. È un omino mesto che ha tentato invano di espatriare dopo il Change. Ha perduto di colpo il 99% cento della clientela. Tuttora appare terrorizzato, parla con un filo di voce. Comunque la si voglia pensare sull’attuale regime, il suo avvento ha causato la paralisi in quasi ogni settore produttivo. Basti pensare che l’Afghanistan aveva un esercito di 350.000 uomini che da un giorno all’altro sono stati smobilitati, via, a casa, senza stipendio, quindi 350.000 famiglie che perso quei trecento dollari al mese, l’unica fonte di sostentamento. Eppure, oggi un operatore internazionale mi ha detto di sentirsi rassicurato (sì, proprio così, rassicurato) dalla grande bandiera bianca con le scritte inneggianti al Corano che i talebani hanno issato sulla collina di Wazir Akbar Khan al posto di quella nazionale. Era serio? Faceva dell’ironia? Non sono riuscito a capirlo. Del resto, non sarà bello né comodo riportarlo, ma quasi tutti gli uomini (intendo i maschi, e non soltanto afghani...) con cui ho parlato sostengono che la situazione attuale sia migliore rispetto a due o tre anni fa: la pacificazione imposta dal trionfo dei talebani, già com’era accaduto nel 1996, ha quantomeno messo fine allo stato di guerra permanente, ha riunificato con la forza il Paese, anche se continuano gli attentati esplosivi rivolti soprattutto contro gli hazara, la minoranza sciita, da parte della fazione afghana dell’Isis. Ecco, certi uomini si sentiranno pure più sicuri oggi, perché non ci sono droni americani in cielo e attacchi di guerriglia talebana, d’accordo: ma le donne? Cosa ne pensano le donne che hanno dovuto mettere da parte ogni speranza di emancipazione? E poi: il lavoro, il cibo, la legna per il fuoco? In una parola: la speranza? Tutto scarseggia, tutto.

Il prezzo della farina in un anno è raddoppiato, quello della benzina triplicato, mentre i salari (per chi ha la fortuna di percepirne ancora uno) sono rimasti invariati. E non è affatto un modo di dire che a Kabul mancano i soldi, bensì un fatto concreto: nel 2020 il governo afghano aveva commissionato a una ditta polacca la stampa di banconote per sostituire quelle vecchie oramai ridotte a cenci impalpabili, ma in seguito alle sanzioni il denaro nuovo di zecca è rimasto in Polonia, e oggi ci si scambia manciate di cartoccetti così scuri che non si riesce nemmeno a leggere quanto valgono, più fragili dei rotoli del Mar Morto.

Domani voleremo a Kandahar. La luce dell’Afghanistan meridionale la ricordo violenta, accecante... Tutto è violento a Kandahar e al tempo stesso mite, sonnacchioso. Come riescono a convivere questi due estremi?

FRANCESCA d’ALOJA - Eccoci nella vera patria dei talebani: qui sono nati i più importanti leader del movimento, qui vive il capo supremo Haibatullah Akhundzada (grafia sempre incerta), erede del mullah Omar, qui il viaggio nel tempo si fa ancora più sconcertante. A darcene un primo esempio è la visione, nel centro della città, di due donne in burqa rannicchiate nel portabagagli di un’automobile. Come i cani. Siamo increduli. “Qui è così, nei taxi le donne stanno nel portabagagli anche quando ci sarebbe posto all’interno dell’auto”, ci spiega il nostro accompagnatore. E di colpo tutte le considerazioni su internet, i social media e la modernità vanno a farsi benedire.

EDOARDO ALBINATI - Proprio ora passiamo davanti a un compound fortificato come un castello medievale, però di cemento: pare sia la dimora del misterioso mullah Haibatullah, mai apparso in pubblico, al punto che qualcuno arriva persino a dubitare che esista davvero. Un potere esoterico. Ed è significativo che il capo viva proprio qui, non a Kabul. In fondo, si tratta del contrasto tra la provincia e la metropoli, che segna oramai da secoli la politica mondiale, dalla Rivoluzione francese fino alla Brexit e a Donald Trump.

FRANCESCA d’ALOJA - La visita al ministero della Cultura per ottenere l’ennesimo permesso avremmo dovuto filmarla: seduto alla sua scrivania circondata da fiori finti, con alle spalle un’assurda libreria che sembra costruita a Cinecittà (ripiani montati su finti tronchi d’albero) il funzionario di bianco vestito scambia una serie (è il caso di dirlo) di salamelecchi con i nostri accompagnatori. È tutto un vicendevole “Siamo onorati” e mani sul petto in segno di ringraziamento. Al solito sono l’unica donna, al solito non mi rivolgono la parola né lo sguardo.

EDOARDO ALBINATI - Mentre facevamo anticamera, notavo alle pareti i poster un po’ sbiaditi sulle bellezze del Paese, tra cui un’immagine dei famosi Buddha giganti di Bamiyan. Strano, no? visto che proprio i talebani li hanno fatti saltare in aria nel 2001, lasciando al loro posto enormi buchi nella montagna. Si saranno scordati di rimuoverlo, quel poster.

FRANCESCA d’ALOJA - Il First Aid Trauma Point di Panjwayi si raggiunge in un’ora attraversando quei paesaggi leggendari che anche chi non è mai stato in Afghanistan può immaginare: fantastiche montagne colorate e seghettate che sbucano all’improvviso dalla pianura grigiocenere. Lungo la strada camion decorati come opere d’arte trasportano carichi inverosimili, sembrano installazioni fantasmagoriche semoventi, e motociclette indiane che sfrecciano da tutte le parti, molte hanno scritto sulla sella “Good vibes”...

EDOARDO ALBINATI - Il pronto intervento chirurgico di Intersos è un servizio essenziale in luoghi dove il soccorso medico non c’è o arriva troppo tardi per rimediare a ogni genere di incidente: da quelli stradali, frequentissimi, allo scoppio di mine, dalle ustioni alle fratture. I dottori stanno ora medicando un ragazzino che ha un ginocchio grosso come un melone, gli drenano il pus, e lo spalmano di mercurocromo fino alla caviglia. Lui, zitto, non un lamento, occhi spalancati. La squadra di medici è formata da un chirurgo, un anestesista, un radiologo, e quattro tra infermieri e infermiere. Per non metterli in imbarazzo, preciso che quella che sto per fargli non è una domanda politica: “Qualcosa è cambiato nel vostro lavoro dopo the Change?”. Risposta unanime dei medici: “Be’, il cambio di regime ha toccato tutti i campi, tutti gli ambiti, tranne il nostro”. “E perché?”. “Perché c’è sempre un sacco di gente da curare, come prima, e noi curiamo tutti”.

FRANCESCA d’ALOJA - Il più anziano fra i dottori commenta sconsolato guardando i piccoli pazienti in attesa: “Una generazione che non può accedere agli studi è una generazione perduta”. Con il suo inglese fluente e la sua laurea misura l’abisso che li separa.

EDOARDO ALBINATI - Festeggiamo il mio compleanno partendo prima del sorgere del sole per Qalat, provincia di Zabul, 140 chilometri a nordest di Kandahar, dove, però, in capo a tre ore di viaggio su buon asfalto intervallato da tormentose piste di polvere dove i tir decorati come carri di Viareggio incedono lenti tra nubi rossastre, non sappiamo se il solito funzionario ci rilascerà o meno il permesso per andare in giro. Nel panorama desertico le tende multicolori (patchwork di stracci) dei pastori nomadi, i mitici kuchi, circondate dai puntolini neri delle greggi di capre, si alternano a installazioni di pannelli solari: ed è l’ennesimo cortocircuito tra mondo arcaico e postmoderno. Persino certe bottegucce di bastoni incrociati e stoppie o le capanne di fango hanno su un pannello solare. Qui il sole certo non gli manca, 330 giorni l’anno. Il problema è che negli altri giorni scende il diluvio e allaga tutto. Nei punti dove l’asfalto è spaccato e le auto devono andare a passo d’uomo sono piazzati poveri bambinetti impolverati che salutano allegri offrendo, disperatamente, melograni rosso fuoco o pentolini di tè caldo.

FRANCESCA d’ALOJA - E quel che non hanno fatto guerra, attentati e sanzioni, lo ha fatto la siccità. Lo vediamo con i nostri occhi arrivando nel poverissimo villaggio di Sayedullah vicino Qalat. È una delle zone raggiunte dall’unità medica mobile di Intersos, che con il suo furgone attrezzato garantisce assistenza alle comunità remote. I medici sono già al lavoro: hanno allestito un banchetto all’ombra di un grande albero, a ridosso di un laghetto artificiale la cui pompa è alimentata da un pannello solare: il solo elemento di modernità in un contesto immutato nei secoli. Il passaggio due volte al mese dei medici è accolto come una festa dai 180 abitanti del villaggio che si riuniscono in gruppi ordinati per farsi visitare, vaccinare o ricevere buste di cibo iperproteico. Il capovillaggio ha messo a disposizione una stanza della sua bellissima (sì, bellissima) casa fatta di paglia e fango per lo screening della denutrizione. Siamo circondati dai bambini più belli del mondo (impareggiabile il primato dell’Afghanistan in tal senso), e sprofondiamo nel segreto di quegli occhi splendidi e soprannaturali che non esistono in nessun altro luogo del pianeta.

EDOARDO ALBINATI - Questa strepitosa, efficientissima Mht (Mobile Health Team) è formata da due medici, un’ostetrica, un addetto alle vaccinazioni, due infermiere di cui una specializzata nella denutrizione, un incaricato dell’educazione all’igiene, più due uomini e due donne che hanno il compito di seguire i casi di disagio familiare, maltrattamenti e altre questioni di carattere legale, cioè tutta quell’attività di supporto che va sotto il nome di protection, dato che qui i guai non si limitano mai alla salute. Fondamentale è il referral system, per cui il malato che necessita di ulteriori cure viene indirizzato verso la più vicina struttura sanitaria in grado di fornirgliele, e accompagnato in ambulanza o pagandogli il transfer.

FRANCESCA d’ALOJA - Già stremati, ci spostiamo verso un piccolo consultorio nel luogo più sperduto che si possa immaginare, Zozgarai. Qui, fra le altre attività, Intersos accoglie i bambini degli sfollati e i figli dei pazienti, per i quali è stata allestita una commovente ludoteca dove tutti insieme, maschi e femmine (a volte le ristrettezze generano un senso pratico capace di superare i regolamenti) giocano, fanno disegni su grandi fogli e ascoltano i suggerimenti di un giovane operatore che li intrattiene con il poco a disposizione. Sorridono, applaudono, ci fanno festa. Fra loro, una bambina che difficilmente dimenticherò: è bella da togliere il fiato, e il suo sguardo, adulto e dolente, mi trafigge. Le scatto una foto, un primo piano formidabile che poi invio ad alcuni amici. Reazione: “Steve McCurry te spiccia casa”. Sembra facile essere Steve McCurry, qui.

Ci sono anche stanze a disposizione delle donne, che però spesso disertano perché non hanno un mahram disposto ad accompagnarle. I medici si sono offerti di pagarne uno pur di farle venire.

EDOARDO ALBINATI - Spin Boldak si trova 110 chilometri a sudest di Kandahar, non lontano dalla frontiera col Pakistan. C’ero stato in missione vent’anni fa con l’Unhcr, dopo che era saltato per aria un deposito di munizioni: la strada per arrivarci era atroce o meglio, per usare l’espressione di uno sgomento giornalista inglese, “tra l’atroce e il non-esistente”. Dei vecchi ponti (su fiumi fantasma, prosciugati dalla siccità) restavano percorribili solo alcune strisce simili a grossi elastici pronti a spezzarsi, eppure le macchine e persino i camion ci passavano sopra calcolando a occhio la carreggiata tra le ruote per non finire di sotto. Rispetto ad allora la strada è una favola, si allunga dentro un deserto che ha per quinte scure montagne dentellate o ammassi di globi rosacei allisciati dal vento. Tra cumuli conici di sassi si aggirano pastorelli e capre, mentre i bambini sul ciglio della strada agitano la manina tentando di arrestare le macchine per vendergli la frutta che tengono in un cestino premuto sul fianco. Ma le macchine passano a cento all’ora sbuffandogli addosso polvere gialla.

FRANCESCA d’ALOJA - E poi ancora figure solitarie che vagabondano per la pianura, sembra, senza meta. I posti di blocco non sono più di due, presidiati dai soliti ragazzetti sdruciti col fucile in spalla. Chiedo all’autista di fermarsi un momento, voglio raccogliere un po’ di terra da aggiungere alla mia collezione di terre del mondo - sarà questa una delle più preziose per me. Nella frazione di Akbar, la Static Facility è un piccolo gioiello. Sotto un tendone, un gruppo di donne sedute su un grande tappeto (con i burqa di diversi colori fiammanti, un’immagine che dà turbamento ma esteticamente potentissima) ascolta immobile le semplici indicazioni di un medico circa le norme igieniche da seguire per prevenire diarrea e disidratazione - sali o composti zuccherini da diluire nell’acqua. Mi chiedo cosa riescano effettivamente a vedere attraverso quella trama fitta (e come si possa sopportarla, quella griglia davanti agli occhi...). Attorno a loro, bambini con gli occhi cerchiati dal kajal (non si tratta di un vezzo bensì di prevenzione contro le infezioni) stanno in silenzio uno accanto all’altro. A poca distanza gli operatori di Intersos ci tengono a mostrarci il Protection Corner, una stanza accogliente dalle pareti in fango color ocra illuminate da una piccola finestra e un bel tappeto a riscaldare l’ambiente. Sapendo di poter contare sulla garanzia della riservatezza, le donne che hanno subito abusi e violenze trovano qui una consulente pronta ad ascoltare i loro racconti. Mentre mi aggiro nel cortile, faccio caso a una donna coperta dal burqa, seduta a terra, sola. Anche se non vedo i suoi occhi, li sento puntati su di me. Sembrerà strano, ma ci siamo guardate a lungo. In silenzio. Ho alzato la mano in segno di saluto, lei ha ricambiato, sfilando la sua, rossa di henné, da sotto il vestito. E allora le ho mandato un bacio, e lei, di rimando, ha poggiato la mano sul cuore.

EDOARDO ALBINATI - In modo spiccio (che poi è sempre il modo migliore), qualcuno mi ha chiarito una situazione che proprio non arrivavo a capire: com’è possibile che l’esercito regolare afghano sia stato sconfitto così facilmente da un’armata quattro volte meno numerosa e piuttosto sgangherata come quella dei talebani?

Avevo usato il verbo defeat, e proprio qui mi sbagliavo. Quale sconfitta? mi hanno spiegato, no, no, è stato un handover, che si potrebbe rendere come “avvicendamento” ovvero “passaggio di consegne”. Con gli accordi firmati a Doha nel 2020, gli americani (e i loro alleati, tra cui noi) hanno di fatto ceduto il controllo del Paese ai talebani tagliando fuori dalle trattative il governo ufficiale afghano, in cambio di minime rassicurazioni sul terrorismo internazionale, e basta. Tre presidenti hanno partecipato al ritiro Usa quasi senza porre condizioni: Obama lo ha avviato, Trump controfirmato e Biden semplicemente eseguito. Di conseguenza l’esercito regolare afghano si è dissolto, dato che rispondeva a un governo oramai divenuto fantasma, e non più riconosciuto nemmeno da chi lo aveva fino ad allora sostenuto economicamente e militarmente. Ora si accusano i talebani di non rispettare i diritti umani: ma scusate, cosa vi immaginavate avrebbero fatto dopo che gli avete consegnato le chiavi del Paese? La situazione ricorda quella del Mexican Standout reso famoso dai film di Tarantino: i Paesi occidentali non allentano le sanzioni e non restituiscono all’Afghanistan i suoi asset congelati (7 miliardi di dollari nelle banche americane; 2,5 in quelle europee) finché gli studenti islamici non restaurano almeno un simulacro di libertà; i talebani hanno capito benissimo che non possono fare a meno degli aiuti, e usano la popolazione come ostaggio. Nel frattempo qui la gente muore di fame e tra poche settimane morirà anche di freddo. La comunità internazionale non può permettersi una catastrofe umanitaria, e tantomeno che il Paese sia per l’ennesima volta frantumato dalla guerra civile, eppure non molla, non vuole finanziare i suoi nemici; ma non mollano nemmeno i talebani, che restano aggrappati alla Sharia perché non hanno in mente nient’altro. Imperturbabili come sempre, i cinesi hanno puntato gli occhi sul Paese, mentre i russi (gli invasori degli anni Ottanta), messi male come sappiamo, alla disperata ricerca di alleanze di ogni tipo lo riforniscono ancora per un po’ di gas a prezzi stracciati. Come se ne esce?

FRANCESCA d’ALOJA - Di fronte a questo vuoto incolmabile, la presenza degli operatori umanitari assume davvero connotati eroici. E dirlo non è retorica.

EDOARDO ALBINATI - Vent’anni fa, ricordo il cielo oscurato fino all’orizzonte dal fumo delle fornaci di mattoni intorno a cui lavoravano frotte di ragazzi fuligginosi: uno spettacolo infernale eppure vitale, col sole che ogni tanto sbucava pallido nella nuvolaglia nera. Oggi, sulla spianata di Baba Qashkar, una trentina di chilometri fuori Kabul, le innumerevoli ciminiere sono quasi tutte spente. Si drizzano nel nulla. Non si costruisce più, in Afghanistan, è tutto fermo, bloccato, a cosa servirebbero nuovi mattoni? E chi pagherebbe gli uomini? Dopo aver visitato la clinica di Intersos, ci rechiamo in visita dalle famiglie che beneficiano dei suoi servizi medici. Nel primo compound vivono sei famiglie una più povera dell’altra. Avevano quaranta tra pecore e capre, ora è rimasto solo qualche pollo; il resto tutto mangiato o venduto.

FRANCESCA d’ALOJA - Eppure c’è sempre una ricercatezza nell’allestimento delle loro abitazioni, dalle stoffe cucite una sull’altra che ricoprono il pavimento ai colori degli intonaci, ai cuscini disposti a terra. In un angolo, una piccola amaca di stoffa colorata funge da culla. Un’eleganza antica, innata.

EDOARDO ALBINATI - È proprio così: per una legge singolare qui tutto ciò che è povero è dignitoso, gli interni delle case di gente che muore di fame sono spogli - qualche tappeto o cuscino rattoppato in terra - eppure pieni di decoro, mentre appena si vedono i soldi, il gusto si fa pacchiano, gli arredamenti diventano in stile “Gomorra”. Ricopio qualche frase dal quaderno di inglese del primogenito di una famiglia disastrata, Nur, sedicenne, incantevole e fiero, un accenno di baffetti sul labbro superiore: “Ahmed tease me everytime” (Ahmed mi prende sempre in giro) e I want to learn Drum (Voglio imparare a suonare la batteria). Suo padre non è in casa, è andato sulla montagna che si erge alle spalle del villaggio in cerca di legna o di qualcosa di commestibile.

FRANCESCA d’ALOJA - E ora un nucleo di sette persone. Il capofamiglia ci invita a sederci, attorno a lui i suoi bambini, a sinistra l’anziano padre, sdentato e cieco, che blatera accarezzandosi la barba, a destra la moglie col volto semicoperto, di cui si intravedono gli occhi più tristi del mondo. Ci siamo preparati delle domande che alla fine vengono convogliate nella sola e unica che abbia un senso: “Come fate a sopravvivere?”. Dopo aver visto le loro case, contato i loro bambini (mai meno di 5 per famiglia) e constatato la totale assenza di beni di prima necessità, ci si chiede davvero come facciano a tirare avanti, come faranno a superare l’inverno. Con agghiacciante rassegnazione il padre ci dice: “So già che forse dovrò rinunciare a uno dei miei figli”, facendoci capire che sarà il più debole a soccombere. Con terrore guardo i suoi bellissimi bambini, a uno a uno, chiedendomi su quale di essi pende la spada dell’ineluttabilità.

EDOARDO ALBINATI - A Kamari, slum di Kabul, entriamo nella poverissima eppure incredibilmente decorosa casetta di una famigliola con cinque figli, i più piccoli presenti, i primi due a studiare alla madrassa. Il babbo ha un carretto di frutta con cui riesce a rimediare due o tre dollari al giorno. A risponderci è però sua moglie, una giovane donna scarna dallo sguardo esasperato. Non è un’esagerazione dire che questa famiglia non ha niente, ma proprio niente: niente soldi, cibo, legna da ardere, che ne so, una capretta... no, niente. Il bambino più piccolo è denutrito e in cura presso il vicino presidio medico di Intersos, e anche la madre lo è. Ma come vi scalderete quest’inverno? chiediamo. Facendo bollire un po’ d’acqua e mettendola in un sandali, che è poco più di uno di quegli scaldini che le nostre nonne mettevano in fondo al letto, con una temperatura che a Kabul a gennaio oscilla poco sopra e molto sotto lo zero, e qui dovrebbe assicurare la sopravvivenza di sette persone - anzi, tra breve otto, perché lei è di nuovo incinta (oh nooo! ancora? penso io). “In un anno, mangeremo carne forse due volte...” dice, sfinita. L’elemento incongruo nella scena è una signorina elegantissima in un completino rosso fuoco: sta in piedi in un angolo, zitta, in attesa. Chi sarà mai? La sorella nubile della padrona di casa. Aspetta la fine della nostra intervista per accompagnare il nipotino, che è malato di “jaundice”. Rimugino il mio esiguo lessico medico in inglese... ma sì, “jaundice” è l’ittero, e in effetti il colorito del fantolino è giallo-cera...

FRANCESCA d’ALOJA - Dove lo porterà, dai medici di Intersos? No, dal mullah. E cosa potrà mai fare il mullah per il malatino? Dirà una preghiera.

EDOARDO ALBINATI - Per visitare l’ultima famiglia dobbiamo scavalcare gli scoli a cielo aperto. La strettoia che conduce alla loro casetta è un corridoio di fango, e siccome esitiamo a tuffarci dentro i piedi, un ragazzino già imbrattato dalla testa ai piedi ci sparge sopra qualche manciata di polvere per asciugarlo - una premura tanto velleitaria quanto struggente. In cima a una scala il fratellino sta issando un mastello che sarà pesante quanto lui, per riparare il tetto col fango. Be’, la situazione qui è davvero grama: il padre è disoccupato da quando la fabbrica di mattoni per cui lavorava ha chiuso i battenti, mentre la madre che cuoceva il pane per le donne del quartiere con un guadagno giornaliero tra i cento e i duecento afghani (sì e no due euro e mezzo) ha dovuto smettere perché la legna è diventata troppo cara. Mentre l’uomo è così abbacchiato che quasi non spiccica parola, la donna è un fiume in piena, loquacissima, furibonda: “Se troviamo qualche soldo per una cosa, non ce l’avremo per un’altra!”. E la figlia di diciott’anni non può più andare a scuola...

FRANCESCA d’ALOJA - Insomma, ci diciamo andando via a occhi bassi, eccola qui la tipica, irresistibile miscela afghana: miserie abissali e meraviglie ipnotiche, rabbia e soavità, crudeltà e innocenza disarmanti. Attività di soccorso e punizioni. Inestricabilmente intrecciate. Contrasti, contrasti e ancora contrasti. C’è un detto che lo spiega bene: “Quando credi di aver finalmente capito l’Afghanistan, allora vuol dire che non l’hai capito”.