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di Irene Famà

La Stampa, 5 agosto 2024

Spesso sono i più fragili, persone senza lavoro o stranieri senza casa. “Servono più fondi per progetti e comunità invece si continua ad aumentare i reati”. I dannati delle carceri le loro colpe potrebbero espiarle fuori dai penitenziari. Ai domiciliari, per fare un esempio. Ma sono fragili. Una casa non ce l’hanno. E non hanno nemmeno un lavoro. Non hanno nulla di nulla. Molti sono stranieri e non conoscono nemmeno la lingua. Ecco le contraddizioni del sistema: da un lato si denuncia il sovraffollamento, dall’altro le porte delle celle si aprono sempre più facilmente. Uscirne? Pare non bastino nemmeno le preghiere. I dati, presentati in Senato dal Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore, tutte queste discordanze le sottolineano bene. In Italia i reclusi sono 61.140 per 46.982 posti disponibili. E il sovraffollamento, a livello nazionale, ha superato il 130%. Oltre il 165% nei penitenziari pugliesi, intorno al 151% in quelli della Basilicata, del 144% nelle carceri del Lazio. “Condizioni disumane”, denunciano le associazioni. “Costretti a stare in cinque in celle da due con quaranta gradi”, raccontano i detenuti.

Eppure la normativa qualche spiraglio lo lascia. Su 28.167 condannati a pene definitive o pene residue fino a tre anni di reclusione, 23.256 potrebbero accedere alle misure alternative. Ma raramente ci riescono. “I requisiti non sono legati unicamente al percorso detentivo o alla pericolosità sociale”, spiega il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa. “Serve una casa, un lavoro. Insomma, bisogna potersi mantenere. In molti, però, partono da una situazione di marginalità”. Che annulla ogni prospettiva. “Le misure alternative - continua Anastasìa - sono cresciute enormemente nel nostro Paese. Ma per utilizzarle bisognerebbe investire sull’esterno”. Progetti, comunità. Se prima, circa 211 detenuti al mese venivano messi ai domiciliari, ora questi sono scesi a 150.

Nell’emergenza carceri i problemi si intrecciano. Nel mese di giugno, 2.875 persone accusate di reati legati al piccolo spaccio e 3.796 di reati contro il patrimonio erano in carcere in attesa di finire davanti a un giudice per un primo grado di giudizio. Ancora nessun processo, eppure sono in cella. Per i casi più lievi, sostengono da più parti, si potrebbe pensare a “misure terapeutiche” fuori dai penitenziari oppure a un periodo di messa alla prova.

Il 30% dei detenuti, in Italia, è in carcere su misura cautelare. “Il carcere resta la prima scelta, la soluzione principale”, interviene l’avvocato Roberto Capra del foro di Torino, presidente della Camera Penale Vittorio Chiusano. E attacca: “Si fanno poche verifiche sulla possibilità di accedere ad altre misure cautelari e alle misure alternative”. C’è poco personale e troppi detenuti di cui educatori e magistratura devono occuparsi. “In un sistema in cui si continuano ad aggiungere reati su reati, è ovvio che poi si arriva al sovraffollamento e a situazioni ingestibili”. Lo raccontano le sommosse scoppiate dal nord al sud Italia. Nel 2023 erano state settantadue, da gennaio si contano novantanove episodi. Una decina solo nelle scorse settimane. Le carceri si incendiano. Rabbia, violenza, rivolte. “Vogliamo farci sentire”, dicevano i detenuti di Regina Coeli la settimana passata, quando si sono rifiutati di rientrare in cella. Protestavano per “delle condizioni disumane, per il caldo, per la mancanza di igiene”. Sono 1.115 in spazi pensati per 626 persone.

Garanti, avvocati, associazioni, mondo politico chiedono di ripensare il sistema. In sintesi? “Il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio”. Ne è convinta la radicale Rita Bernardini, ex parlamentare, che proprio oggi è in visita al penitenziario di Ariano Irpino. Donna concreta, parte da un numero. Significativo. “All’anno, spendiamo tre miliardi e mezzo per il carcere e 500 milioni per l’esecuzione penale esterna”. Ovvero per tutto ciò che riguarda le misure alternative e per le misure di comunità. Bernadini non utilizza mezzi termini: “Vuol dire che abbiamo fatto una scelta. Ed è carcerocentrica”. In molti chiedono di “mettere mano alle riforme, prevedere investimenti di bilancio, investire sul fuori”. Un esempio? In Sicilia sono state create delle Comunità terapeutiche assistite. “Ci vanno anche persone che hanno problemi psichiatrici e che devono scontare pene brevi. Sono seguite da psicologi, educatori e così via”. Altre fragilità. E le fragilità, in cella, si amplificano. Dannati del carcere, dunque. Di cui pochi si prendono cura. E che a pochi interessa redimere.