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di Piero Sansonetti

L’Unità, 28 gennaio 2024

Mario Ciancio Sanfilippo, anni 91, non è mafioso e non ho concorso, neanche dall’esterno, con l’attività delle cosche di Catania. Lo ha deciso il tribunale. L’altro ieri sera. Mario Ciancio Sanfilippo, ex direttore della Sicilia, editore, stampatore, per cinque anni capo dell’associazione nazionale degli editori, ha trascorso però sette anni sotto la mannaia della magistratura. Il Pubblico ministero pochi giorni fa ha chiesto che fosse messo in cella e tenuto dietro le sbarre per 12 anni (cioè fino a 103 anni), la sua attività economica è stata pesantemente danneggiata dall’iniziativa della magistratura, la sua vecchiaia è stata distrutta ed è stata rovinata anche la vita e l’attività economica dei suoi figli.

E tutto questo benché si sapesse benissimo che Mario Ciancio Sanfilippo era innocente. La procura di Catania, una decina di anni fa, dopo avere indagato chiese l’archiviazione. Poteva finire tutto lì, ma il Gup si intestardì e dispose che le indagini proseguissero. Allora la Procura propose il rinvio a giudizio, ma un Gip, molto saggio, respinse la richiesta perché giudicò incongruente il reato: Ciancio non era accusato di nessun delitto preciso, solo di “concorso esterno in associazione mafiosa”, e la Gip spiegò che nel codice penale quel reato non l’aveva trovato (perché non c’è) e che la lingua italiana è molto chiara: o concorri o non concorri, il concorso già di per se è esterno alla associazione, ma non può essere a sua volta ancora più esterno.

Ci fu ricorso in Cassazione contro la Gip, e la Cassazione cancellò la decisione della Gip, considerandola, credo, troppo ragionevole per appartenere a un magistrato serio. Così nel 2017, mese di giugno, Ciancio fu rinviato a giudizio e gli furono sequestrati tutti i beni. Ieri sera gli hanno detto che era assolto. È tornato innocente dopo un processo che nessuno può negare sia stato persecutorio.

Ma non è il caso più clamoroso di ingiustizia accertato ieri. In serata la Corte d’Appello di Roma ha mandato assolto per non aver commesso il fatto Beniamino Zuncheddu, anni 58. Beniamino ha trascorso 33 anni in prigione accusato di avere ucciso un pastore in Sardegna. Anche Beniamino era un pastore, viveva in provincia di Cagliari. Era un uomo pacifico, gentile. È stato condannato in primo grado, in appello e in Cassazione. Decine di giudici avevano avallato la decisione di considerarlo colpevole (spesso Travaglio si chiede: possibile che 9, 10, 12 giudici si siano sbagliati tutti? Sì è possibile. Temo che sia anche abbastanza frequente).

Beniamino ieri ha tenuto una conferenza stampa nella sede del partito radicale e ha raccontato che gli avevano chiesto di pentirsi, in modo da poter usufruire dei benefici previsti dalla legge. Ma lui non voleva pentirsi di una cosa che non aveva mai fatto. Dopo trent’anni in cella i suoi avvocati erano riusciti a portare prove della sua innocenza e ottenere la revisione del processo. Tre anni fa.

Per fortuna il testimone che lo accusava - unica prova esaminata nei processi - ha ammesso che era stato costretto ad accusarlo dal poliziotto che dirigeva le indagini. Tutto inventato. La magistratura solo lo scorso novembre aveva concesso la sospensione della pena. Sequestrare una persona per 33 anni e chiuderla in una cella non è un delitto? Accanirsi contro un ultraottantenne innocente non è un delitto? È lecito parlare dei delitti della magistratura?

È saggio dire, come dicono tutti: “ho piena fiducia nella magistratura”? Ma quale fiducia? Solo un pazzo può avere fiducia. E solo dei politici impauriti e giustizialisti possono restare a vedere, imbelli, un potere medievale sempre più potente e incontrollato, in grado di poter sopraffare e annientare i cittadini senza che nessuno possa fermarlo.