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di Patrizia Rinaldi


La Repubblica, 24 agosto 2024

La nostra Costituzione lo dichiara in maniera inequivocabile: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’articolo 1 della legge n. 354 del 1975, di riforma dell’ordinamento penitenziario, ci dice che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve attuare il rispetto della dignità della persona”. Ricordato ciò: pur applicando tali norme è facile un risultato certo? È consueta una totale rieducazione con relativo inserimento nel tessuto sociale? No, non lo è, soprattutto nei riguardi di adulti radicati in un sistema di valori in antitesi con i dettati costituzionali. Ma se non è certo un risultato di riabilitazione del detenuto in piena applicazione delle leggi della riforma carceraria e di principi di rispetto della persona che non dovrebbero avere bisogno di riforma o di suggerimenti, non possiamo sperare che la riabilitazione accada quando tali norme vacillano.


Le condizioni dei detenuti a Poggioreale continuano a essere allarmanti: i detenuti del primo piano del Reparto Avellino hanno incendiato un materasso in sezione in seguito a un contenzioso di un singolo riguardo una visita programmata: in un primo momento rifiutata, ma poi, purtroppo per il detenuto, accettata quando già era stata annullata. Il numero dei detenuti resta di più di duemila unità, nonostante la chiusura di un intero reparto. Ovunque si continuano a sentire affermazioni che più che la nostra Costituzione richiamano la legge del taglione; lo stesso “occhio per occhio dente per dente” tornato in vigore in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei Talebani.
Un’altra chicca di alta consistenza etica è il detto e ripetuto “si ammazzino tra di loro”. Come se non ci dovessimo nemmeno sporcare le mani con la legge del taglione, come se il destino degli sbagliati dovesse viaggiare su una linea parallela alla nostra, priva di qualsiasi incontro anche solo fortuito. La sentenza divina di una punizione trascendente si deve incarnare da sola, senza scomodare un solo gesto degli illibati, dei giusti. Perché a cavare lo stesso occhio che è stato cavato un po’ pare brutto.
Dalle nostre parti la condanna definitiva “è irrecuperabile, sono irrecuperabili” serpeggia in maniera trasversale, tenta elementi di ogni dove. I giustizieri della notte si nutrono di ipotesi azzardate e di differenti posizioni ideologiche, anche se a Charles Bronson somigliano poco o niente. Il problema non è il singolo, ma la comunità. È doveroso capire il dolore e lo sfogo violento del parente di una persona brutalmente assassinata (Cerami docet). Ma la comunità dovrebbe conoscere la semplice regola che lo Stato non è un assassino e che anzi, più concede vicinanza alla regola democratica, più vince.
Non è detto che la vittoria dia un risultato proporzionato, non è detto che applicare del tutto il principio cardine del rispetto della persona di ogni luogo civilizzato consenta ogni redenzione; nemmeno molte redenzioni, a ben vedere. Ma è lì la differenza tra individuo e Stato. La produttività, il risultato, è funzionale ai meccanismi di un’azienda non di un principio che nobilita il Paese: guarire invece di mortificare, correggere invece di uccidere.