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di Annarita Digiorgio

Il Foglio, 25 novembre 2023

Lara è in fin di vita, picchiata in carcere. Una storia che fa pensare a ciò che è accaduto ad Alberto Scagni. Lara è in fin di vita, picchiata in carcere. Marina e Roberto si sono rivolte alle detenute per farla fuori. Sfruttando la vendetta carceraria su una donna che ha avvelenato un bambino. Una storia purtroppo che accade anche nel paese reale. È notizia di ieri che Alberto Scagni, condannato a 26 anni per aver ammazzato sua sorella, è stato nuovamente picchiato in carcere a Sanremo a poco più di un mese dall’episodio che si è verificato in quello di Marassi. Scagni è arrivato in codice rosso con diversi traumi ed è stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura del naso e della mandibola. È ora in coma farmacologico per in prognosi riservata. Due detenuti di nazionalità marocchina lo hanno tenuto in ostaggio in cella torturandolo per ore, quasi fino a ucciderlo. Gli artefici del sequestro di persona e delle lesioni gravi erano in stato alterato per alcool fatto in modo artigianale in cella macerando la frutta e ingerendo medicinali.

La mamma di Scagni, e anche della sorella che Scagni ha ucciso, ha detto che “lo stato è responsabile di come viene trattato qualsiasi detenuto, compreso Alberto. Noi abbiamo sempre chiesto giustizia, qui ormai siamo alla vendetta. Ma non mi stupisce nulla, lo stato ci aveva abbandonato anche prima, quando avevamo chiesto aiuto ai carabinieri temendo esattamente quello che poi è successo. L’unica coraggiosa è stata Alice, che ormai non c’è più”. Filippo Turetta, indagato per l’omicidio di Giulia Cecchettin, arriverà dalla Germania al carcere di Venezia con un aereo militare. Per paura che in un aereo di linea potesse essere aggredito. “Ha visto come lo stanno curando bene? E mica è in una cella singola, i suoi compagni detenuti direi che li hanno scelti per bene”, ha detto la mamma di Scagni. Lo Stato non riesce a garantire la sicurezza delle persone che tiene in custodia, ed è un grave problema per lo stato di diritto. A Upas se ne sono accorti, al governo no.

Un Posto al Sole e la giustizia di fronte ai casi di cronaca più terribili

La legge del taglione, la vendetta privata, il rancore. Perché è sbagliato dire “in galera e buttate la chiave”: ce lo insegna l’esperienza di Lara in carcere. “Lo sai che facciamo qui dentro a quelle come te?”, dice con aria minacciosa una detenuta a Lara, dopo che in carcere si è sparsa la voce che ha provato ad ammazzare un neonato. È lo spirito di vendetta privata, giustizia sommaria, la famosa legge del taglione di epoca medioevale, con cui i criminali vendicano crimini che non accettano. Ma con cui sempre più spesso, nonostante l’illuminismo e la società della ragione, ancora oggi spesso abbiamo a che fare. Lo vediamo in questi giorni con le minacce che molti sui social rivolgono a Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchittin. E che nello stato di diritto della culla della ragione non dovrebbero contemplare neppure frasi come “in galera e buttare la chiave”. Perché la speranza è l’unico antidoto alla recidiva.

È notizia che il tribunale di Roma ha condannato il carabiniere che nel 2019 scattò una foto al ragazzo americano che fu bendato in caserma durante l’interrogatorio per l’omicidio del brigadiere Cerciello, e che fu condivisa persino dal ministro Salvini. “Non c’era necessità investigativa di fare quella foto né di divulgarla, nulla giustifica la divulgazione di foto in una chat che non era investigativa. C’era una partecipazione emotiva ai fatti, che non c’entrava con le indagini”. Mentre il carabiniere che lo aveva bendato è stato condannato per misura di rigore non consentita dalla legge. L’omicida sconterà la pena che la giustizia reputa congrua, nessuna tortura ulteriore è legittima per chi segue il faro del diritto e non della barbarie.