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di Gianfranco Falcone

L’Espresso, 12 aprile 2022

A partire da oggi, e in seguito per le prossime settimane, usciranno una serie di articoli sul carcere. Perché il carcere? Perché è uno dei luoghi dell’impossibile, uno di quei luoghi in cui l’umano sembra venir meno, eppure riesce misteriosamente a fiorire. Il carcere è un luogo fisico, ma è anche metafora. Senza dubbio è uno di quei luoghi in cui lo Stato mette alla prova la sua presenza, le sue ideologie, nei confronti di chi è più fragile.

C’è una frase che mi è molto cara “I diritti o sono di tutti o non sono di nessuno”. Come potrei interessarmi dei diritti delle persone disabili, se non mi occupassi anche dei diritti dei migranti, dei malati mentali, dei carcerati, dei senza tetto, tanto per stilare un primo elenco? Come potrei sostenere i miei diritti se non pensassi anche ai diritti di chi mi è prossimo?

Se guardassi semplicemente al mio non potrei più parlare di diritti, parlerei di privilegi. Allora per me diventa indispensabile guardare i luoghi, le persone, i contesti, le relazioni in cui i diritti di tutti devono prendere forma ed essere. Perché su questo tema non esiste la parola loro, esiste la parola noi. Oggi dialoghiamo con Susanna Marietti.

Chi è Susanna Marietti?

Sono la coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone. Ovviamente la mia vita non si esaurisce in questo, né si esaurisce in questo il mio interesse per il tema del carcere. Sono una persona che a una certa età ha capito di volersi impegnare nell’ambito della protezione, della promozione dei diritti della persona, cominciando non dai miei ma da quelli delle categorie più deboli e meno protette della società. Ho incrociato Antigone tanti anni fa. Credo sia un’associazione che, a differenza di come a volte accade in altri contesti, sappia proporre una visione della convivenza della società, della collettività e del mondo, a tutto tondo. Nonostante il suo specifico sia il carcere e il sistema penale, Antigone riesce a inquadrare l’uso che lo Stato fa del sistema penale in un modello generale di proposta di convivenza civile. Ho fatto per tanti, tanti anni la volontaria ad Antigone e poi a un certo punto è diventato il mio lavoro.

Nel nostro dialogo useremo daremo la parola penale o useremo la parola rieducare?

In italiano si parla di codice penale, di codice di procedura penale, di sistema penale. Un conto è il penale e un conto è il penitenziario. Il penitenziario è un sottoinsieme del penale. E l’esecuzione della pena, è la parte finale. Il sistema penale comprende in sé dalle indagini al processo, e tutto il sistema che ruota attorno all’elenco di comportamenti che la società ha deciso essere penalmente vietati, e all’elenco delle sanzioni che la società ha deciso essere una risposta della pubblica autorità a quei comportamenti. Quindi, è una cosa ben più ampia. Dopodiché la pena è pena. Il carcere è una pena, che poi debba tendere alla rieducazione non toglie che sia una pena. La Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione. Non è che non parla di pene. Mette insieme le due cose.

Fa parte delle vostre attività visitare gli istituti penali?

Esattamente. Una delle nostre attività, sicuramente una delle più importanti e caratterizzanti il nostro lavoro, è il monitoraggio delle condizioni di detenzione in Italia. Lo facciamo dal 1998. Quando il ministero della Giustizia ci ha autorizzato a visitare gli istituti di pena, più o meno con le stesse prerogative che la legge concede ai membri del Parlamento, e a una serie di altre categorie. Quindi, ogni anno svolgiamo circa cento visite. Diciamo che più o meno in due anni li abbiamo visti tutti. E poi ricominciamo. Pubblichiamo ogni anno un rapporto sulle carceri italiane, che è il frutto in buona parte della nostra osservazione diretta. Con l’idea di vedere se c’è una discrepanza tra la vita reale in carcere e quello che è previsto dagli standard nazionali e internazionali.

In queste visite voi siete andati anche al Sestante. Che cos’è il Sestante?

Il Sestante è un reparto di articolazione psichiatrica, che sta nel carcere di Torino Lorusso e Cutugno. Dopo la riforma che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari le articolazioni psichiatriche in carcere, la normativa poi è stratificata e non è lineare, dovrebbero avere una doppia funzione. Da un lato di osservazione psichiatrica. Ovvero la legge dice che quando c’è il dubbio che una persona, quando sopravviene una malattia psichiatrica in carcere debba essere messo per un massimo di 30 giorni in osservazione per capire che problema ha. Quindi da un lato è un’osservazione psichiatrica, dall’altro invece gestisce la malattia psichiatrica conclamata di persone che al momento della commissione del reato sono state giudicate capaci di intendere e di volere. Quindi, non hanno avuto una misura di sicurezza come si dà alle persone non imputabili ma hanno avuto una pena. Però durante l’esecuzione di questa pena è sopravvenuto un disagio di tipo psichiatrico.

Quindi il Sestante si prenda cura anche delle patologie preesistenti alla carcerazione, non soltanto di quelle sopravvenute in seguito, durante l’esecuzione della pena?

Dipende. Nel senso che se una patologia preesistente ha fatto sì che al momento della commissione del reato la persona venisse prosciolta a causa di questa patologia, non considerata capace di intendere e di volere, allora no. Questa persona sarebbe mandata in una REMS, che è una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Se invece questa patologia psichiatrica non compromette, non è grave abbastanza, o comunque riguarda altre sfere della psiche umana ma non compromette la possibilità della persona di essere consapevole del reato commesso allora va in carcere. A quel punto può darsi che il carcere decida, in accordo con la Asl del territorio, di far stare questa persona almeno per un periodo di tempo, in un’articolazione della salute mentale come il Sestante perché ha bisogno di cure.

Sul sito del ministero di Giustizia rispetto al Sestante sono scritte alcune affermazioni, gliele leggo: Attività psichiatrica ambulatoriale; Attività psichiatrico-forense istituzionale; Attività psicologica ambulatoriale; di Osservazione psichiatrica e di trattamento. Nella sua visita al Sestante ha trovato tutto questo o ha trovato delle discrepanze rispetto a quanto affermato?

Il Sestante è diviso in due sezioni. Io ne ho visitata una delle due, quella più critica che è quella dell’osservazione psichiatrica. È difficile rispondere a quello che lei mi ha chiesto perché non è attraverso una visita che tu vedi se fanno o no il colloquio con lo psicologo. Tra l’altro era tardo pomeriggio quando sono andata. Non era l’orario dello psicologo. Quindi non è così che uno vede se tutte quelle cose ci sono o non ci sono. Quello che io ho trovato è stato sicuramente uno stato un po’ di abbandono di queste persone, non una presa in carico psicologica a tutto tondo sicuramente. Una sovra rappresentazione dell’aspetto farmacologico della cura, e comunque un degrado ambientale percepibile.

Nell’intervista che lei ha rilasciato il giornalista del Corriere della Sera parlava di lampadine rotte, di scarichi che non funzionavano.

Quella non è un’intervista. Quando io sono uscita da lì ho scritto un articolo sul mio blog su Il Fatto Quotidiano, poi vari giornali hanno ripreso e copiato pezzetti di quell’articolo. Ma io non ho rilasciato nessuna intervista. In quell’articolo parlavo anche di un signore che mi diceva di stare al buio da diversi giorni perché non gli funzionava la luce. Effettivamente ha provato davanti a me a spingere l’interruttore e non funzionava. Un altro signore diceva che la turca, che era ben in vista nella sua cella, non scaricava e che le sue feci erano lì. Non mi sono avvicinata a controllare. Si è avvicinato l’agente di polizia che era con me e non ha ribattuto. Non ha detto non è vero. Quindi, immagino che fosse vero. Io per discrezione sono rimasto qualche passo indietro.

La stampa come ha affrontato il problema del Sestante?

In quel momento tutti i giornali hanno ripreso la notizia, il Corriere della Sera, La Stampa, le varie radio; Radio 3 ne ha parlato, Radio Radicale. È stato poi il motivo per cui il ministero della Giustizia ha chiuso il reparto e la Procura di Torino ha aperto un’indagine che è ancora in corso.

Ci sono degli indagati?

No. No, contro ignoti. Stanno facendo le indagini per capire.

Di recente c’era stato anche il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere. In un’intervista l’attore e regista Ascanio Celestini ipotizzava, paventava, la possibilità che si trattasse di un sistema di intervento, non soltanto di un episodio. Però, se metto insieme gli avvenimenti del Sestante e quelli di Santa Maria Capua Vetere, viene fuori un’immagine del sistema carcerario che fa acqua da tutte le parti. È così?

Sicuramente è un sistema che ha moltissimi limiti come noi denunciamo da tanto tempo. In fatto di violenza non è l’unico caso quello di Santa Maria Capua Vetere. Questo non lo dico io. Abbiamo avuto delle sentenze per tortura, a San Gimignano, a Ferrara. Altre indagini sono in corso. Antigone è parte civile in vari processi per tortura, maltrattamenti, falso, cose di questo tipo, in carcere. Santa Maria Capua Vetere certo è un caso un po’ diverso dagli altri. Forse perché è il più grande episodio insieme a quello che accade nel 2000 nel carcere di Sassari dal punto di vista numerico. Anche lì ci fu un pestaggio che riguardò centinaia di persone. Accadde nel carcere San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000.

A Santa Maria Capua Vetere abbiamo più o meno un centinaio di detenuti vittime e un’ottantina di indagati.

Quello di San Sebastiano fu un episodio collettivo. Altre sentenze che ci sono state riguardavano magari il pestaggio di un singolo detenuto. Per esempio c’è il caso famoso di Asti. Che poi portò anche alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Lì c’erano due detenuti che erano stati tenuti in celle di isolamento e ripetutamente picchiati. Antigone era nel processo sia a Strasburgo che in Italia. È un caso che abbiamo presente. Riguardava quattro agenti e due detenuti. Santa Maria è invece un caso più eclatante.

L’Italia è stata multata dall’Unione Europea per il trattamento riservato ai detenuti. Che cosa accadde?

Si riferisce alla sentenza Torreggiani del 2013. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo funziona così: se il singolo cittadino crede che uno dei suoi diritti tutelati dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo sia stato violato dallo Stato va alla Corte. Se la Corte ritiene che lui abbia ragione condanna lo Stato a pagargli un risarcimento. Nel caso della sentenza Torreggiani erano arrivate a Strasburgo migliaia di ricorsi tutti analoghi. Nel senso che avevano tutti per tema il sovraffollamento carcerario come causa di un trattamento inumano e degradante.

Già la Corte si era espressa nell’estate del 2009 nel caso di un detenuto che era stato fatto vivere per tre mesi a Rebibbia in una cella sovraffollata, e aveva condannato l’Italia a risarcirlo per trattamento inumano e degradante. Al seguito di questa sentenza moltissimi detenuti che si trovavano nella stessa condizione andarono a presentare il proprio ricorso a Strasburgo. Quando la Corte si vide arrivare migliaia di ricorsi analoghi usò uno strumento che fa parte del regolamento della Corte ormai da vari anni, quello della sentenza pilota. Ovvero, invece di condannare il Paese per ognuno dei singoli ricorsi si limita a esaminare il primo dei ricorsi tutti uguali, che in quel caso era quello di Torreggiani e altri. La corte condanna in quel caso e poi sospende gli altri, dicendo “Guarda Paese membro, - in questo caso l’Italia -, visto che ti ho condannato per il primo e visto che gli altri sono uguali al primo, ti condannerei migliaia di volte allo stesso modo. Invece di fare questo, visto che è evidente che tu hai un problema di tipo sistemico, ti do un’indicazione politica. Risolvi il tuo problema”.

Quindi, a seguito della condanna della sentenza Torreggiani l’indicazione della Corte fu di risolvere problema del sovraffollamento penitenziario e di introdurre delle garanzie maggiori per i detenuti entro un anno di tempo. L’Italia si dette da fare, fece una serie di modifiche normative e anche amministrative. Mise su una commissione che fece una serie di proposte di tipo amministrativo, furono varati due decreti legge in quell’anno. Per cui la popolazione detenuta diminuì di circa 15.000 unità. Furono introdotti meccanismi di garanzia per i detenuti. Fu introdotto un tipo di ricorso più forte al magistrato di sorveglianza. Furono introdotti dei meccanismi di compensazione per chi aveva avuto delle violazioni. E alla fine di questo anno di tempo che era stato lasciato all’Italia, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che è l’organismo che si occupa di verificare che le cose che la Corte dice allo Stato siano effettivamente fatte, esaminò la situazione dell’Italia e si disse soddisfatta. L’Italia aveva rispettato le indicazioni della Corte. Quindi, non ci furono altre penalizzazioni. Questa è la storia.

Quanti sono oggi i detenuti in Italia?

Oggi i detenuti in Italia sono 54.645.

Quanti dovrebbero essere perché non si parli di sovraffollamento?

Meno. Perché la capienza regolamentare ufficiale degli istituti di pena è di 50.856. Quindi, è inferiore. Ma al di là di questo noi sappiamo, e il ministero lo ammette, che varie migliaia di questi posti che vengono comunque conteggiati sono in realtà inutilizzabili, perché fanno parte di sezioni che sono in ristrutturazione, o cose di questo tipo. Quindi non dovrebbero contare. Diciamo quindi che ci sono circa 8.000 persone in più rispetto a quelle che dovrebbero esserci.

Con queste 8.000 persone in più si può parlare ancora di un sistema che tende alla rieducazione come vuole la Costituzione?

La rieducazione non è solo un fatto di affollamento. Certo, l’affollamento rende tutto più complesso. Al di là della mancanza di spazio fisico, che ovviamente in carcere è fondamentale, si tratta anche di un sistema che è comunque pensato per 50.000 persone e deve farsi carico di molte di più. Quindi c’è l’assistenza sanitaria, gli educatori, gli assistenti sociali, tutto ciò ha un sovraccarico. È chiaro che già il sovrannumero dei detenuti crea un problema anche alla rieducazione. Ma al di là di questo non è che se adesso 10.000 persone uscissero dal carcere le altre si troverebbero in un sistema improntato all’integrazione sociale. Non è così. Bisogna cambiare anche altri meccanismi, cambiare la mentalità del sistema. Non è facile capire che cos’è la reintegrazione sociale, ma sicuramente è necessario dare delle opportunità concrete a queste persone, di lavoro, di formazione professionale, di scuola. Purtroppo queste cose sono troppo residuali oggi in carcere.

Problema sanitario. Come è stata affrontata dal carcere la pandemia?

In vari modi. Ovviamente su base regionale. Quindi come tutta la sanità. Ormai dal 2008 la sanità penitenziaria è passata al servizio sanitario nazionale. Prima i medici erano dipendenti del ministero della Giustizia. Dopo il 2008 sono diventati dipendenti del ministero della Salute, sono delle Asl. Quindi, la stessa medicina che cura i cittadini liberi cura i cittadini detenuti. Tendenzialmente tutte le regioni hanno più o meno messo in atto misure abbastanza paragonabili. Cioè, tende di pre triage fuori dal carcere per chi arrivava, 15 giorni più o meno di quarantena per i nuovi arrivati, la creazione sia di reparti quarantena ma anche reparti covid per i conclamati. Questo dal punto di vista sanitario. Dal punto di vista invece delle misure governative adottate nel penale, fin da subito c’è stata una facilitazione, una velocizzazione dell’accesso alla detenzione domiciliare. Perché ovviamente la cosa fondamentale era fare spazio. Altrimenti le sezioni quarantena, le sezioni covid non si potevano creare. Quindi, i detenuti che avevano pene brevi e che comunque non erano pericolosi e che già andavano in permesso premio, si è cercato di mandarli il più possibile in detenzione domiciliare. I detenuti in regime di semilibertà, cioè quelli che escono al mattino e tornano la sera a dormire in carcere hanno avuto licenze straordinarie per cui hanno dormito a casa. Avevano cioè di giorno la semi libertà e di notte la detenzione domiciliare in maniera da non fare avanti e indietro. Perché la cosa più pericolosa era il dentro fuori. Sono stati bloccati nei momenti più caldi sia i colloqui con i parenti, sostituiti da video chiamate, e le attività del volontariato, della scuola e così via.

Tornando un attimo al Sestante. Il Sestante è un riferimento soltanto per il carcere di Torino o lo è anche a livello nazionale?

Sicuramente a livello regionale. Il Sestante fu il primo reparto costruito con certe modalità nel 2000. Chi lo pensò creò un sistema che aveva un raccordo con i servizi psichiatrici, il territorio, con i dipartimenti di salute mentale. Quindi, anticipando quello che poi successe più avanti dappertutto in tutta Italia. L’idea originaria era una buona idea. Poi è diventata quella discarica che è diventata. Quindi, divenne in questo senso un po’ un modello per tutta l’Italia. Invece se lei mi chiede se oggi ci mandano detenuti da tutta Italia posso risponderle che è un reparto molto grande per essere un’articolazione psichiatrica, ha tanti posti. Quindi, può darsi che se c’è un detenuto che sta male e non c’è posto da altre parti lo mandino là.

Come è avvenuto il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari?

Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi. Nel 2014 c’è stata una legge, la legge 81. Ci fu una commissione parlamentare del Senato guidata da Ignazio Marino, lui era medico e poi divenne sindaco di Roma. Quando era senatore questa commissione sanitaria fece il giro degli ospedali psichiatrici giudiziari con le videocamere. Poi pubblicò le immagini che ebbero un impatto molto forte sull’opinione pubblica. Costrinsero la politica a interessarsi del sistema, e a chiudere quei posti che erano veramente dei posti orribili.

Adesso, con le nuove norme, gli ospedali psichiatrici giudiziari non esistono più. Esistono le REMS, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, che hanno una vocazione del tutto diversa. Sono strutture molto più piccole, a vocazione esclusivamente sanitaria, sul territorio. E sono solo per persone non imputabili. Quindi, per il reo folle considerato non imputabile. Quindi con una misura di sicurezza e non con una pena.

Per le altre categorie cioè coloro che hanno bisogno di un’osservazione psichiatrica e chi, come si dice, è un sopravvenuto ex articolo 148, cioè ha sviluppato una patologia psichiatrica durante l’esecuzione della pena se la deve cavare il carcere. Non li può mandare nelle REMS. Prima li mandava negli ospedali psichiatrici giudiziari. Quindi se la cava il carcere con le sezioni di articolazione per salute mentale. Oppure con le possibilità che la legge offre per far curare le persone all’esterno dei servizi territoriali.

Quando si parla di carcere si parla spesso di maschile. Che ne è del femminile?

Del femminile se ne parla meno perché i numeri sono molto diversi. In carcere in Italia le donne sono poco più del 4%, il 4,1% della popolazione detenuta complessiva. Questo accade più o meno in tutta Europa e in tutto il mondo. In Europa si oscilla tra il quattro e l’otto. Quindi, la vera domanda da porsi è che bisognerebbe capire perché le donne delinquono così tanto meno degli uomini. Il carcere è plasmato al maschile perché la grande maggioranza delle persone in carcere sono uomini. Abbiamo in Italia quattro istituti interamente femminili, a Roma Rebibbia femminile, che è l’istituto femminile più grande d’Europa, poi a Venezia, a Pozzuoli e a Trani.

Questi quattro istituti ospitano meno di un quarto delle donne detenute. Gli altri tre quarti abbondanti sono ospitati in sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile. Queste sono le situazioni più svantaggiate perché da un lato non puoi non averle. Perché se mantenessi soltanto i quattro istituti femminili, a parte che non ci entrano, in alcuni casi costringeresti le donne a scontare la pena molto lontane da casa loro e dalla famiglia. È importante che ci siano tante sezioni femminili, in maniera che possa essere una sezione di prossimità rispetto al tuo luogo, dove hai i tuoi affetti. I quali in questo modo possono venire a fare i colloqui e tutto il resto.

Però ovviamente una piccola sezione con tre, quattro, dieci, quindici donne in un carcere dove magari ci stanno trecento uomini, è ovvio che sarà una sezione più abbandonata. Perché il direttore che deve scegliere se convogliare delle risorse umane, economiche, attività di volontariato o che, verso la parte maschile o verso quella femminile, andrà verso quella che copre trecento detenuti e non quella che ne copre dieci. Quindi, ovviamente sono le situazioni un po’ più faticose dal punto di vista trattamentale.

Quali sono le problematiche che emergono maggiormente? La gestione della maternità è una di quelle? Come viene affrontata la maternità in carcere?

Sicuramente, se mi parla dal punto di vista umano e non giuridico, quello è uno dei problemi più sentiti dalle donne: la mancanza dei figli. È la prima cosa di cui ti parlano.

Il sistema giuridico affronta la questione con una serie di norme che sono pensate per avvicinare la mamma al figlio, per non recidere questo rapporto. La più dolorosa ma anche a volte indispensabile è quella che consente di tenere il bambino con sé fino ai tre anni di vita. Per cui in carcere ci sono alcuni bambini. Ma poi ci sono anche altre norme. Per esempio esiste una forma di detenzione introdotta nel 2001, di detenzione domiciliare che si chiama proprio Detenzione domiciliare speciale per detenute madri, che permette a donne con figli fino ai dieci anni di età di accedere a questa forma speciale di detenzione anche fuori dai limiti temporali della pena della detenzione domiciliare ordinaria, per ripristinare la convivenza con il figlio. Poi esistono le case famiglia protette per donne che hanno commesso reati. Insomma ci sono una serie di norme che sono attente a questo tema. Un po’ meno forse per quanto riguarda norme specifiche di tutela del rapporto tra figli in generale fuori e persone detenute dentro. L’unico strumento normativo di soft law [soft law: norme che non hanno un’efficacia vincolante diretta nda] è una risoluzione del Consiglio d’Europa del 2018.

Con i figli si tende, nelle carceri in cui è presente ma quasi ovunque, si tende a fare i colloqui in maniera un po’ più informale in quelle che si chiamano le aree verdi, quindi ai giardinetti. Si può mangiare insieme, poi in alcuni istituti ci sono le sale colloquio con le ludoteche per accogliere i bambini mentre stanno in attesa di vedere il papà o la mamma. Queste sono tendenzialmente le misure.

Come Antigone avete provato a darvi una risposta sul perché le donne delinquono di meno degli uomini?

Non è tanto come Antigone. La letteratura criminologica e sociologica ci ha provato tante volte, da tanti anni. Ci provava Lombroso dicendo che era proprio la forma del nostro cranio che faceva sì che eravamo così inette da non saper far bene neanche i reati. Al limite eravamo pazze ma mai criminali per scelta. Poi un’altra risposta che si è data è che il ruolo di angelo del focolare che la società attribuisce alla donna fa sì che difficilmente la donna rompa questo ruolo stesso. Poi si è visto che nelle società dove il processo di emancipazione femminile è più avanzato non è che poi questo porti ad avvicinare più di tanto il tasso di delinquenza femminile a quello maschile. Direi che è una risposta non si è riusciti a darla da nessuna parte.