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di Karima Moual

La Stampa, 23 marzo 2022

Per il conflitto in Ucraina, in meno di un mese, hanno lasciato il loro Paese con poche cose al seguito 3,3 milioni di persone. Stiamo parlando del 7% della popolazione totale dell’Ucraina. Sono invece 6,5 milioni, spiega l’Oim, gli sfollati interni.

Le immagini che ci arrivano delle interminabili file alla frontiera dei paesi confinanti sono soprattutto quelle di donne e bambini, esattamente come quelli in carne ed ossa arrivati anche nel nostro paese e che con generosità, empatia e umanità abbiamo accolto nei centri, oltre che nelle case e nelle scuole. Quel 7%, è come se in tre settimane scomparisse l’intera popolazione del Piemonte, ha spiegato Matteo Villa dell’Ispi.

Una vera catastrofe nel cuore dell’Europa, alla quale fortunatamente, si sta rispondendo con celerità oltre che con strumenti che dovrebbero facilitare l’accesso a una vita più sicura lontani dai teatri di guerra lasciati alle spalle. Eppure, tutte queste iniziative lodevoli, non possono sfuggire all’analisi di un fenomeno drammatico, complesso ma globale che riguarda tante vite umane in diversi angoli del mondo, legate al filo della speranza di sopravvivere anche grazie a come noi rispondiamo, e mettiamo in atto ciò che dichiariamo come società civile.

Quel che sta accadendo in Ucraina e la risposta umanitaria è encomiabile anche perché per la prima volta gli Stati si sono messi d’accordo per dividersi il dramma dei rifugiati. Non è stato facile, c’è chi dice che non durerà a lungo ma intanto, intorno ad un tavolo si è presa una decisione. Storica è stata infatti l’iniziativa europea nella quale si è tirato fuori dal cassetto uno strumento legislativo introdotto nel 2001 (ventuno anni fa) e mai utilizzato. Quello della protezione temporanea che fu introdotto proprio nel 2001, dopo i conflitti nei Balcani, per regolare l’afflusso massiccio di sfollati, e fornire loro protezione.

Eppure, in questi anni siamo stati testimoni di crisi, guerre e conflitti in varie aree lontane dai confini europei - si pensi a quella in Tunisia, Siria e Afghanistan solo per fare qualche esempio - ma la direttiva 55/2001 non fu mai tirata fuori, se non ora, e sempre solo ed esclusivamente per i rifugiati ucraini, non sia mai. Ai profughi ucraini in possesso di diploma o laurea come medici e infermieri verrà anche concesso di lavorare in pubblico. E sono tante le altre iniziative lodevoli messe in campo per rendere, giustamente, la loro vita più semplice.

Nel seguire tutto questo, ammetto che ho paura di fare una domanda. Perché per gli ucraini sì, mentre per tutti gli altri no? (Aggiungo che ho ribrezzo per chi tira fuori che vi siano rifugiati veri e quelli falsi, insultando l’intelligenza di chi sul fenomeno ci lavora e ha responsabilità alte). Ho paura di questa domanda perché la verità è che la risposta l’abbiamo, e in più occasioni anche in queste settimane abbiamo avuto la certezza che purtroppo, la solidarietà verso i disperati del mondo ha colori diversi, e lo scandalo dalla frontiera polacca con gli immigrati che vivevano in ucraina svegliati dalla guerra anche loro, ma sbattuti letteralmente indietro, è ancora fresco con immagini e storie.

Sul New York Times c’è l’ennesimo racconto sul fronte polacco e del trattamento riservato ad un giovane in fuga dalla guerra in Sudan e una giovane donna ucraina che stava scappando dal suo paese lo stesso giorno in cui è scoppiata la guerra. Erano lì con la stessa angoscia, peccato che al sudanese è stato riservato un trattamento diverso. “È stato preso a pugni in faccia, insultato e lasciato nelle mani di una guardia di frontiera che lo ha picchiato brutalmente e sembrava divertirsi a farlo. Katya, la giovane ucraina, si sveglia ogni giorno con un frigorifero rifornito e del pane fresco in tavola, grazie a un uomo che lei chiama santo.

Le loro esperienze disparate - racconta il giornale - sottolineano le disuguaglianze della crisi dei rifugiati in Europa. Sono vittime di due eventi geopolitici molto diversi, ma perseguono la stessa missione: fuggire dalle devastazioni della guerra. Mentre l’Ucraina presenta all’Europa la più grande ondata di rifugiati degli ultimi decenni, molti conflitti continuano a bruciare in Medio Oriente e in Africa. A seconda della guerra in cui una persona sta fuggendo, l’accoglienza sarà molto diversa. Ora, non che da queste parti si è ingenui, ma non può che essere doloroso toccare con mano anche come il verbo della tragedia umana con donne e bambini acquisisce sfumature di empatia, vicinanza e solidarietà da una parte, mentre dall’altra è totalmente assente.

Certo, nessuno è obbligato ad empatizzare, solidarizzare verso chi non sente vicino, ma si può ancora credere nel ruolo universalistico dei diritti? I diritti dei bambini, delle donne e anche di quegli uomini che fuggono dalla morte, possono credere di essere figli di questa umanità, o per esserlo devono nascere solo nel cuore dell’Europa?

La direttiva del 2001 fatta rinascere in questi giorni per gli ucraini garantirà agli sfollati una protezione temporanea di un anno, rinnovabile fino a tre, che dovrebbe consentire loro di godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione, ottenendo un permesso di soggiorno, la possibilità di esercitare un’attività lavorativa dipendente o autonoma, l’accesso a un alloggio adeguato, l’assistenza sociale necessaria, l’assistenza medica o di altro tipo, e mezzi di sussistenza.

Bene, pensate a quanti dibattiti si sono consumati in questi anni su questi diritti ma per altre persone provenienti da altri luoghi che ancora oggi vivono come fantasmi nel nostro territorio. Come si fa a non fare un’analisi su questo anche mentre seguiamo con angoscia quanto sta accadendo in Ucraina? Mentre scriviamo, oggi sono arrivate in Italia più di 50 mila persone tra donne e minori in sole tre settimane dal conflitto.

Nel 2021 in un anno intero sono sbarcate in Italia via mare 67mila persone. Mettete bene in fila questi numeri e chiedetevi perché per quest’ultimo numero si è parlato di invasione, di chiudere le frontiere e c’è chi ha avanzato financo il blocco navale.

Nella rotta balcanica, si è andato giù di filo spinato, idranti e militari gelidi anche di fronte alle condizioni climatiche che sono costati la vita a intere famiglie che dal Medio Oriente si erano avviate in Europa per chiedere rifugio ma hanno trovato solo una lapide. Il paradosso è che oggi, gli stessi che chiamavano taxi del mare le imbarcazioni che soccorrevano naufraghi nel Mediterraneo, oggi chiamano eroi coloro che provano a portare in salvo le persone al confine con l’Ucraina.

Mentre seguiamo un passo dopo l’altro quanto sta accadendo a Nord, abbiamo anche il dovere di non spegnere le luci su quanto sta accadendo a Sud del mondo, a partire dalle nostre coste, dove solo nelle ultime due settimane, 70 migranti sono morti al largo della Libia. Perché l’inferno libico esiste ancora e continua a bruciare vite che fingiamo o meglio non vogliamo vedere. Ha portato via da gennaio ad oggi, 215 persone che hanno perso la vita, sempre per attraversare il Mediterraneo.

L’Unhcr ricorda che il dramma dei rifugiati continua a bruciare in diversi fronti come in quello dell’Afghanistan, ma anche in Africa come in Sudan, nella Repubblica democratica del Congo, in Etiopia, Kenya, Uganda. Ma la domanda è: riusciremo, anche avendo vissuto da vicino la drammaticità della guerra ucraina a tenere accesa la fiamma della solidarietà, anche laddove c’è un’umanità lontana da noi, per usi, costumi e lingua? Perché tocca dirselo con onestà: non basta compiacersi per l’abbraccio solidale al nostro vicino di casa, la vera sfida per dirsi pienamente civiltà, è riuscire davvero ad allargare quell’abbraccio a chi è più lontano da noi.