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di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 25 marzo 2024

la “rivoluzione orizzontale” di Internet ha generato un modello di conoscenza democratico ma ha anche impoverito la capacità di selezionare i saperi utili. A che serve passare anni sui libri, a che servono lo studio, l’esperienza, la competenza se poi mi basta un click per farmi un’idea su tutto? E se quello stesso click permette di cucirmi addosso l’abito che desidero; giurista, virologo, astrofisico, climatologo, critico d’arte, sismologo, e via dicendo.

L’avvento di Internet doveva segnare la rivoluzione democratica della conoscenza una rivoluzione orizzontale, rivolta alle masse che mette a disposizione di tutti informazioni un tempo riservate a una ristretta cerchia di iniziati e, in parte, è stato così. L’intera cultura umana scorre infatti all’interno dei nostri dispositivi digitali, pc, tablet, telefoni, tutte le grandi opere della letteratura, della filosofia, della scienza, della musica sono facilmente scaricabili. Le enciclopedie, una volta così costose, si possono consultare gratuitamente online quasi a coronare l’utopia degli illuministi con la loro conoscenza “circolare”. La rete pullula di video tutorial su qualsiasi argomento, dal montaggio di uno scaldabagno alla costruzione di un piccolo aereo da turismo, mentre la mascherina del motore di ricerca di Google è un moderno oracolo a cui ci affidiamo per verificare la data di nascita di un attore, i premi oscar vinti da un film, la temperatura di fusione dell’alluminio, un articolo del codice di procedura penale, il tempo che farà domenica.

Gli strumenti di cui oggi disponiamo per accrescere la nostra cultura e per condividere senza limiti le risorse immateriali, appena 25 anni fa erano impensabili. Annidato negli anfratti delle biblioteche, il sapere è stato messo al centro del villaggio globale e questo, paradossalmente, ci ha fatto smarrire il senso e il ricordo della battaglia, spesso dolorosa, contro gli austeri e supponenti custodi delle opere. Quel sapere che fu estratto parola per parola e poi conservato come un tesoro era la ricompensa per una severa disciplina alla quale i monaci avevano indicato la via. Eravamo estremamente attaccati a ciò che aveva richiesto un lavoro paziente, la lentezza e la gradualità dell’apprendimento permetteva ai concetti di sedimentarsi nella memoria.

L’economista e futurologo americano Jérémy Rifkin ha definito non a caso la nostra epoca “l’era dell’accesso” evocando con grande ottimismo una società fondata sullo scambio e sulla cooperazione, addirittura un modello alternativo al capitalismo e alla proprietà privata, ma dall’accesso all’impiego intelligente delle informazioni il passo da compiere sembra ancora enorme.

Da una parte c’è l’illusione della conoscenza, il “non sapere di non sapere” beffardo rovesciamento del celebre motto socratico, un prezzo da pagare quasi inevitabile di fronte all’oceano indistinto di nozioni che il web ci offre senza soluzione di continuità, ponendoci di fronte alla responsabilità di selezionarle. Questa illusione, tralasciando le varianti patologiche e pittoresche del complottismo, del terrapiattismo e il proditorio e reo utilizzi delle fake news, ha dato diritto di parola, per dirla in modo un po’ meno snob del compianto Umberto Eco, a legioni di sprovveduti convinti di conoscere materie di cui non sanno nulla perché “c’è scritto così su internet”. Con effetti a volte grotteschi: pazienti che si autodiagnosticano malattie e contraddicono il proprio medico, clienti che impongono strategie difensive ai propri avocati; un tempo noi italiani eravamo sessanta milioni di allenatori della nazionale, oggi siamo sessanta milioni di tuttologi. In secondo luogo assistiamo a un impoverimento generale della capacità di analisi e dello stesso uso del linguaggio. Come notava lo scrittore Nicholas G. Carr nel celebre articolo Is Google Making Us Stupid?, internet ha creato il modello della “navigazione” intellettuale, stiamo diventando abilissimi a scorrere e carpire informazioni da una pagina web, ma sempre meno abituati e capaci di comprendere un testo articolato, un ragionamento o un pensiero complesso, ogni giorno siamo più numerosi nel lambire il fiume della conoscenza ma in pochi sembrano capaci di immergersi nella profondità delle sue acque.

È una rivoluzione antropologica che trasforma i processi cognitivi e il nostro rapporto con la lettura, la scrittura e lo stile di espressione. Come notò Carr parafrasando Masrhal McLuhan e citando un episodio di un secolo e mezzo fa, il mezzo modifica radicalmente la sostanza del messaggio: “Nel 1882 Friedrich Nietzsche acquistò una macchina da scrivere. La sua vista stava peggiorando e concentrarsi su una pagina per lunghi periodi di tempo era diventato estenuante e doloroso, provocando frequenti mal di testa. Una volta imparato a scrivere, era in grado di scrivere con gli occhi chiusi, usando solo la punta delle dita. Ma la macchina aveva un effetto più sottile sul suo lavoro. Un suo amico compositore, notò un cambiamento nel suo stile di scrittura. La sua prosa, già laconica, divenne ancora più concisa, più telegrafica. “Hai ragione”, rispose il filosofo, “i nostri strumenti di scrittura partecipano allo sbocciare dei nostri pensieri”.

Come l’invenzione dell’orologio meccanico ha modificato la percezione del tempo e il nostro rapporto con le esperienze dirette (un tempo si mangiava quando si aveva fame, si dormiva quando si aveva sonno, oggi quando ce lo dice l’orologio), come la burocrazia, per dirla con Italo Calvino, ha generato una goffa e prolissa “antilingua” che vive nei verbali di polizia e nelle ordinanze dei giudici, allo stesso modo l’avvento del web e della sua rivoluzione orizzontale ha senz’altro diffuso conoscenze ma anche spalmato un velo di supponente ignoranza sul mondo.