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di Luigi Manconi

La Stampa, 24 dicembre 2022

Negli anni decine di bambini sono nati in cella, privati del loro tempo. Meno minori detenuti: siamo solo all’inizio ma la strada è giusta. C’è una dimensione della nostra società - un luogo preciso, delimitato da un perimetro definito - dove la percezione del tempo è completamente alterata. Quel luogo è il carcere.

Si può arrivare a dire che esso costituisca una vera e propria macchina del tempo autonoma e scissa dal tempo generale, quello delle nostre relazioni sociali e della nostra vita ordinaria. In altre parole, se la prigione è un mondo a sé, il suo è un tempo del tutto indipendente. Ora, se questo è vero, come conoscerà il tempo chi sa solo il tempo della galera? Quale tempo saprà chi, per ventura, vi è nato o vi abbia trascorso la prima infanzia o l’adolescenza? Stiamo parlando, sia chiaro, di piccole entità - appena qualche decina i bambini in carcere con le loro madri - e tuttavia, centinaia e centinaia nel corso degli anni: ma la loro sorte richiama quella di quanti trascorrono significativi periodi in stato di privazione della libertà.

Perché è proprio quest’ultima che si esprime in primo luogo come imposizione di un tempo tutto particolare. Un tempo inventato rispetto alla vita normale e comunque funzionale a quella forma di esistenza che è la detenzione. Non è certo un caso che, fino a qualche decennio fa, i reclusi non potevano portare al polso l’orologio. Il motivo è semplice: avere un orologio significa poter prevedere, programmare, organizzare la vita, con i suoi vuoti e i suoi pieni, determinare scadenze e scegliere l’ordine delle proprie azioni, inazioni e consuetudini.

Decidere, cioè, del tempo. In carcere, è il tempo dell’autorità a decidere del prigioniero. Si pensi, dunque, a come questo tempo esterno ed eterodiretto possa condizionare la vita nascente di chi si trovi in carcere a due, tre mesi. Come sarà il suo ciclo di vita? L’allattamento, la lallazione, il gattonare, lo svezzamento, il conoscere il mondo con la bocca e con le mani: questa enorme esperienza emotiva e cognitiva, che richiede la piena libertà della relazione a due con la propria madre, risulta costretta dentro uno spazio e un tempo - quelli della cella - che ne alterano in profondità misura e ritmo.

Oltre a deformare, tendenzialmente, i sensi. Cos’è l’udito di un bimbo nella sezione di un carcere? Cosa sono il suo olfatto, il suo gusto, il suo tatto? Che cos’è la sua vista? Il suono ferrigno e l’odore acido della prigione resteranno nella memoria? Accompagneranno gli anni successivi o si disperderanno? E soprattutto, chi è nato e cresciuto in una cella, acquisterà, una volta uscitone, una propria e autonoma misura del tempo? O esso verrà scandito ancora, nel suo inconscio, da divieti, interdizioni, proibizioni dell’autorità?

D’altra parte, l’essere spossessato del tempo è, in carcere, espressione e conseguenza del fatto che, il bambino con la propria madre, così come l’uomo fatto, si trovano in stato di minorità. E la condizione dell’adulto si avvicina a quella del minore. E la finalità, e in ogni caso l’esito della carcerazione, sembra essere l’infantilizzazione del carcerato, a partire appunto dalla privazione della libertà. Infatti, la prima manifestazione di tale privazione è proprio l’impossibilità di decidere dei propri passi, dei propri movimenti, delle proprie azioni.

È questo che pone il detenuto in stato di minorità, così come lo è - altra evocazione della condizione infantile - la cancellazione della sfera sessuale. Come già mi è capitato di scrivere più volte, c’è un segnale inequivocabile di questo processo di riduzione del detenuto a bambino: il linguaggio che domina in carcere è un lessico diminutivo-vezzeggiativo che va da domandina, principale forma di comunicazione all’interno della popolazione detenuta, fino a scopino (addetto alle pulizie), spesino (incaricato degli acquisti), concellino (compagno di cella) e secondino (chi segue, sorveglia, controlla).

È un sistema verbale che produce integrazione e interdipendenza e definisce quel mondo a sé. Questo processo di creazione di un “tempo prigioniero” si proietta sull’intero sistema penale, determinando una singolare forma a clessidra: nella parte superiore si addensano gli anziani e persino i vecchi e nella parte inferiore si trovano i minori e persino i neonati. La parte centrale di quella popolazione, minori e giovani adulti (18-25enni), è attualmente assai ridotta.

Dal 2007 a oggi, come è scritto nel rapporto di Antigone del gennaio 2022, mai così pochi detenuti negli istituti penali minorili: un anno fa erano 316 di cui 8 ragazze e 140 stranieri. Meno di mille quelli che si trovano nelle 637 comunità che ospitano minori: la maggioranza vi entra in misura cautelare dalla libertà o da altre misure nell’ambito di un progetto di messa alla prova (come poi si dirà) o ancora quale pena alternativa.

Si tratta di strutture organizzate secondo un modello familiare, presso cui svolgono la propria attività operatori professionali di più discipline. Si può dire che quello della giustizia minorile è l’unico settore del sistema penitenziario italiano dove sono stati introdotti significativi elementi di riforma, grazie alla scelta di ridurre il ricorso al carcere, di estendere le misure alternative e di adottare la messa alla prova. Ovvero la sospensione del processo e l’affidamento del minore ai servizi della giustizia minorile e, in caso di esito positivo, la pronuncia di estinzione del reato. Dunque, meno carcere e una coraggiosa scommessa sull’adolescenza e sulla sua possibile emancipazione dalla marginalità e dal crimine. Siamo appena agli inizi, sia chiaro, ma si tratta di non abbandonare questo percorso e, all’opposto, di sostenerlo, incentivarlo, irrobustirlo. Sono passati oltre trent’anni dal film di Marco Risi, Mery per sempre, che documentò per la prima volta, con sguardo disincantato, un mondo rimasto in ombra. Ora, di esso, sappiamo qualcosa di più. Ma il lavoro è appena iniziato.