di Giovanni Fiandaca
Il Foglio, 29 novembre 2024
Mantovano parte da presupposti giusti. L’autocontenimento dei magistrati, però, presuppone condizioni chiare: un riorientamento culturale all’interno dell’universo magistratuale, oltre al recupero da parte della politica della capacità di dare risposte non illusorie ai bisogni e alle aspettative dei cittadini. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, intervenendo a un recente convegno sul principio di legalità organizzato dalla Corte dei conti di Firenze, ha svolto considerazioni meritevoli di attenzione. In sintesi, la questione problematica al centro dell’interesse di Mantovano riguarda l’attuale modo di atteggiarsi del rapporto tra principio di legalità e principio democratico negli odierni ordinamenti costituzionali multilivello: rapporto a suo giudizio sbilanciato a favore del primo principio (così come gestito dalla giurisdizione, sia nazionale che sovranazionale), con conseguente mortificazione della sovranità popolare quale si esprime nelle scelte di indirizzo politico. Inoltre, egli lamenta che, a causa della complessità e incertezza delle fonti del diritto derivanti dalla intricata compresenza di norme interne e di norme di provenienza esterna, lo stesso principio di legalità smarrisce la sua funzione orientativa e cresce nel contempo il potere creativo dei giudici, in violazione del principio costituzionale che li vorrebbe soggetti alla legge.
Questi preoccupati rilievi, occasionati - come il sottosegretario riconosce - da vicende conflittuali dei nostri giorni in materia di immigrazione, finiscono col riproporre l’enorme e ricorrente problema dell’interazione tra politica e diritto nelle democrazie costituzionali contemporanee: problema non solo molto rilevante sul piano della prassi, ma non a caso assai dibattuto in sede accademica con approcci differenziati (cui qui non è possibile neppure accennare per limiti di spazio).
Una diagnosi differenziale, abbastanza condivisa nella riflessione teorica, è tuttavia questa: lo stato europeo-continentale ottocentesco era uno stato “legislativo”, nel quale cioè la legge prodotta dal potere politico costituiva la fonte suprema, per cui il legislatore era signore del diritto; mentre lo stato costituzionale secondo il modello novecentesco è caratterizzato dalla soggezione dello stesso legislatore a una fonte normativa superiore, costituita dalla Costituzione. Sicché, anche la soggezione del giudice alla legge va intesa come soggezione non alla sola legge ordinaria, bensì prima ancora alle norme costituzionali; da qui il potere-dovere dei giudici di vagliare la conformità ai princìpi costituzionali delle norme approvate in sede politica, sollevando eccezioni costituzionalità dinnanzi alla Corte costituzionale, oppure - come la stessa Consulta ammette e richiede - prospettando (ove possibile) interpretazioni costituzionalmente orientate. Mutatis mutandis, un discorso analogo, per effetto del costituzionalismo cosiddetto multilivello, vale rispetto alla verifica giudiziale di compatibilità tra norme interne e norme sovranazionali (così come, a loro volta, vincolativamente interpretate dalle Corti extranazionali competenti).
Se così è, aumenta appunto il potere interpretativo della magistratura, con un coefficiente di discrezionalità valutativa tanto tanto maggiore quanto meno certa risulta la norma applicabile o la sua interpretazione. E non vi è dubbio che questo accresciuto potere ermeneutico possa dar luogo a conflitti anche aspri o a incomprensioni anche gravi tra politica e giustizia, nei casi in cui i politici avvertono il controllo giurisdizionale come invasivo, o comunque troppo limitativo della libertà di decisione politica espressione della sovranità popolare. Proprio questa sovranità del popolo Mantovano intende difendere e preservare: restituendo alla politica, e sottraendoli il più possibile alla giurisdizione, soprattutto quei “bilanciamenti tra diversi interessi, diritti, doveri e valori” in cui si riflette la sostanza democratica di un ordinamento giuridico e che, come tali, dovrebbero spettare a organi che rappresentano i consociati, e quindi la loro sovranità.
Orbene non credo che così argomentando Mantovano, politico di vaglia ed ex magistrato di alto livello, auspichi un ritorno allo stato legislativo ottocentesco (a parte, forse, qualche nostalgico vagheggiamento). Piuttosto, ho motivo di ritenere che gli stia a cuore l’esigenza di un tendenziale equilibrio, di una interazione collaborativa tra i poteri istituzionali, che può peraltro essere in se stessa condivisa in maniera trasversale agli schieramenti politici. Si tratta perciò di distinguere, nel suo complessivo argomentare, le parti che meritano consenso da quelle più discutibili.
Cominciando da queste ultime, un punto fondamentale non scontato riguarda la concezione della sovranità nel contesto di una democrazia costituzionale. Va ancora intesa come spettante esclusivamente al popolo e ai suoi organi rappresentativi? È questo il modo di intenderla più conforme al senso comune, e tuttora predominante in non pochi settori del mondo politico-giornalistico. Ma, in sede di riflessione teorica, non sono poche le voci - riconducibili a studiosi qualificati di diversa provenienza disciplinare - che tendono a reinterpretare la sovranità democratica in maniera “dualistica”, cioè fondata sulla sovranità popolare e al tempo stesso sulla tutela dei diritti fondamentali da parte del potere giudiziario. Un approccio troppo professorale? Forse. Esso però consente di ritenere più compatibili (o meno incompatibili) principio democratico e giurisdizione costituzionale, con l’attribuzione a quest’ultima della funzione (cosiddetta contromaggioritaria) di salvaguardare i principi costituzionali, tenendoli al riparo dalle fluttuazioni delle contingenti maggioranze politiche. D’altra parte, le norme costituzionali (o sovranazionali) richiedono, a loro volta, di essere interpretate e, specie quando vengono in rilievo norme che affermano principi indeterminati ad amplissimo spettro, la loro concretizzazione da parte dei giudici risulta aperta a più opzioni interpretative, invero influenzate anche da preferenze culturali e politico-ideologiche a carattere soggettivo.
È pertanto da condividere l’esigenza, manifestata da Mantovano, che i giudici-interpreti non eccedano in discrezionalità, non si lascino andare a una sorta di libertinaggio argomentativo, ma assumano un atteggiamento di self-restraint, di autocontenimento, come anche chi scrive ha più volte auspicato su questo giornale (cfr. ad esempio il Foglio del 9 maggio 2023). Ma questo auspicabile contenimento presuppone alcune condizioni. Da un lato, un riorientamento culturale all’interno dell’universo magistratuale, che sia in grado di contrastare l’accentuato attivismo giudiziario, contestandone la legittimazione alla stregua di una rivitalizzazione del principio della divisione dei poteri; e, dall’altro, un recupero da parte della politica di una credibile cultura democratica e della capacità di dare risposte non illusorie ai bisogni e alle aspettative dei cittadini, a cominciare da quelli più disagiati. Insomma, essendo la questione sistemica, occorrerebbe una convergenza virtuosa di entrambi i versanti, politico e giudiziario. È realistico confidare nella concreta possibilità futura di una tale convergenza?