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di Vincenzo Trione

Corriere della Sera, 16 settembre 2023

È necessario insegnare ai ragazzi anche a coltivare il dubbio e a vivere la cultura come domanda aperta. Lo scorso 17 agosto, nell’edizione milanese del Corriere, è stata pubblicata la lettera di uno studente di un liceo classico, che quest’anno ha conseguito la maturità. Vi si parla, con toni duri, di un’esperienza segnata da delusioni. La speranza. E la realtà. Da un lato, il desiderio che la scuola sia il luogo dove si impara a stare con gli altri e a fare comunità, dove si diventa adulti, responsabili dei propri gesti. Dall’altro lato, alcuni falsi miti: merito, performance, eccellenza. Ma, soprattutto, il disinteresse nei confronti della costruzione della persona. “Ciò che conta è il risultato, non il percorso, quello che sei è il voto, non la tua crescita, l’importante è andare avanti fino a quando non raggiungi il burnout: tutto il resto viene dopo”.

Alla base di queste degenerazioni, secondo il giovane liceale, c’è una pericolosa filosofia: “Se non raggiungiamo certi standard siamo un fallimento, (...) va data più importanza al risultato, non alla salute mentale o alla nostra felicità”. Spesso alimentata da famiglie inclini ad assecondare la retorica di una vuota e spietata competitività, questa filosofia viene replicata in maniera più esasperata in tante aule universitarie.

Nell’interrogarci, le parole dello studente milanese chiedono di essere lette come un j’accuse contro un intero sistema formativo in parte ancorato a inadeguati modelli novecenteschi e, insieme, alla vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico, come un invito ad avviare un urgente, serio e radicale ripensamento di questo stesso sistema, muovendo dalla classica distinzione tra istruzione ed educazione.

Occorre dirlo con fermezza: una scuola adeguata ai nostri tempi inquieti non istruisce, ma educa. Certo, offre gli strumenti per leggere un testo letterario o filosofico e per risolvere un problema o un’equazione. Ma insegna anche a coltivare il dubbio e a vivere la cultura come domanda aperta. E, soprattutto, ha il compito di prendersi cura della condizione emotiva e morale degli studenti, nella convinzione che, come diceva Platone, “la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. Dunque, dedica energie alla pratica maieutica, per far affiorare sempre più frequenti malesseri individuali e disagi sociali. E, senza farsi ingabbiare nel culto ipermoderno della prestazione, del merito e del successo, sa misurarsi con lo spazio dei fallimenti.

Sì, i fallimenti (un termine che ho ritrovato nella lettera dello studente al Corriere). Non si tratta di un tabù. La formazione di un ragazzo non è una retta, ma un intreccio di linee. Non conta tanto l’approdo quanto il camminare. È come una scorribanda tra pause, deviazioni e sentieri laterali. Ci si lascia sorprendere da incontri imprevedibili, da rivelazioni, da inciampi. Ma, spesso, sono proprio le sbandate a determinare la rotta, a fare di noi ciò che siamo. È quel che scriveva Walter Benjamin: nel labirinto si nasconde “la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta”.

Insuccessi, sconfitte, atti mancati, errori, perdite, ripensamenti, dubbi, insicurezze, entusiasmi convertiti in disillusioni, allora. La volontà di potenza e la consapevolezza di non poter raggiungere certe mete. La gioia e la fatica: la gioia delle scoperte e la fatica degli esami.

Oltre a essere la stagione nella quale gli orizzonti si allargano sempre più, la giovinezza è l’età delle ansie, delle decisioni sbagliate, delle false partenze. I ragazzi sono esperti nell’arte del sentirsi fuori posto, del perdersi e del ritrovarsi. Ma, proprio per ritrovarsi, è fondamentale la presenza degli adulti e di una scuola animata da insegnanti che non si comportino come i secondini di un prigioniero evaso da decenni né si limitino a trasmettere contenuti e nozioni, ma, ogni giorno, sappiano accendere il fuoco della conoscenza. E ricordino quel che amava dire Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”.