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di Emilio Drudi

nuovidesaparecidos.net, 13 agosto 2024

Il 16 luglio la polizia libica ha fatto irruzione in numerose case dei quartieri periferici di Zuwara, cento chilometri circa a ovest di Tripoli, arrestando oltre 200 migranti in attesa di trovare un imbarco verso Lampedusa. Meno di due settimane dopo, nella stessa zona, ne sono stati presi altri 54. Per tutti si sono aperte le porte dei centri di detenzione-lager, dove la vita dei prigionieri non conta nulla. L’unica possibilità di uscirne, assai spesso, è piegarsi al ricatto delle guardie stesse: dai mille ai duemila dollari per essere rilasciati e tornare a sperare di poter fuggire dall’inferno della Libia.

Retate analoghe sono sempre più frequenti in tutto il paese: nei principali punti di imbarco usati dai trafficanti - Zawiya, Sabratha e appunto Ziuwara - e poi a Tripoli, Biserta ma anche molto più a est, in Cirenaica. Come a Tobruk, dove il 31 luglio più di cento donne, uomini e bambini sono stati sorpresi in una fattoria dei sobborghi dove vivevano nascosti da giorni. Per non dire degli arresti isolati o a piccoli gruppi. Basta un nulla per essere fermati. E sempre più di frequente non assicurano un minimo di tutela neanche i documenti rilasciati dall’Unhcr che attestano lo status di rifugiato e richiedente asilo protetto dal diritto internazionale.

Anche Yorsalem, una giovane profuga eritrea, ha vissuto questa terribile esperienza. È arrivata in Libia tre anni fa, scappando dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Sperava di poter proseguire verso l’Europa, dove potrebbe contare sull’aiuto di parenti e amici, ma tutte le occasioni di imbarco sono sfumate ed è rimasta intrappolata a Tripoli, vivendo sempre nel terrore di essere sorpresa dalla polizia e tratta in arresto. E i suoi peggiori timori si sono concretizzati nel maggio scorso, quando è incappata casualmente in un rastrellamento ed è finita nel carcere di Abu Salim. Per poter uscire è stata costretta a pagare un riscatto di duemila dollari. Ora è di nuovo libera ma “per strada”, sempre con la paura di essere catturata di nuovo. E non ha più denaro: quei duemila dollari versati alle “guardie” erano la sua ultima risorsa. Da quando è fuggita dal regime di Asmara la sua famiglia ha speso per aiutarla almeno 20 mila dollari, una cifra enorme per una famiglia eritrea.

La storia di Yorsalem fa il paio con quella di Solomun, un giovane eritreo bloccato in Libia da quasi tre anni. Ha tentato più volte, senza fortuna, di imbarcarsi. Ogni volta con difficoltà maggiori, sia per reperire il denaro necessario, sia per la sorveglianza sempre più stretta della polizia e della Guardia Costiera. Per non dire del calvario di una vita condotta alla macchia, nella quale diventa un rischio costante anche far fronte alle più elementari necessità quotidiane. E proprio per far fronte alle “necessità del vivere” una retata della polizia lo ha sorpreso per strada nei sobborghi di Tripoli. Dopo l’arresto, il 13 marzo scorso, è stato assegnato al centro di detenzione di Tarik al Sika, nella periferia sud della città, un inferno nel quale i prigionieri vengono ammassati in un grande capannone centrale dove, come si legge in un’inchiesta pubblicata dalla giornalista Sara Creta circa tre anni fa, il pavimento è ricoperto di materassi e le persone sono rinchiuse così strette da non riuscire nemmeno a sdraiarsi: “L’aria è irrespirabile, impossibile camminare senza calpestare i corpi. Centinaia sono condannati alle malattie e alla fame, per mesi”. Per uscire da questo incubo Salomun ha pagato mille dollari a uno dei guardiani. Mille dollari per tornare non alla libertà ma alla precarietà estrema di prima. Con sempre minori speranze e, in più, gli strascichi pesanti dell’esperienza patita: gli amici dicono che vive sotto choc e rifiuta quasi ogni contatto.

Sono migliaia i giovani passati in gironi di questo genere dopo essere stati fermati prima ancora di imbarcarsi: nelle ore precedenti o al momento stesso dell’imbarco, nei rifugi precari procurati dai trafficanti in vista della traversata, lungo le piste del deserto o nelle vicinanze del confine meridionale e, sempre di più, nei quartieri periferici di Tripoli e delle altre grandi città dove i profughi/migranti tentano di sopravvivere. Dei 141.238 fermi effettuati in totale dalla polizia e dalla guardia costiera libiche a partire dal 2020, infatti, ben 40.963, il 29 per cento, quasi uno su tre, sono stati effettuati “a terra”, con un crescendo impressionante anno dopo anno: 2.116 nel 2020, pari al 14,5 per cento e poi, via via in aumento, 9.632 nel 2021 (pari al 22,7), 10.730 nel 2022 (il 30,6 per cento), 13.338 lo scorso anno (43,1 per cento) per arrivare ai 5.147 di quest’anno fino al 5 agosto (28,7 per cento).

I migranti attribuiscono questa escalation soprattutto all’aumento dei fermi nelle aree urbane. “A Tripoli - hanno riferito alcuni profughi ad Abraham Tesfai, un esponente del Coordinamento Eritrea Democratica esule a Bologna - i quartieri più a rischio sono quelli di Debi, Dharie Ashera, Abu Salim, Shergiyas, Albatur, Gargarish, Aiyn Zara, Measker Hamza e Tarik al Sika. È dall’inizio di maggio che in queste zone si registrano continui rastrellamenti, posti di blocco, irruzioni nelle case dove la polizia sa che vivono tantissimi disperati, ciascuno dei quali, cercando di passare il più possibile inosservato, deve lottare ogni giorno anche per le esigenze e i problemi più semplici per sopravvivere, oltre che per mettere insieme il denaro per la traversata del Mediterraneo con i barconi dei trafficanti”.

Berhe, un richiedente asilo eritreo, è un “veterano” di questi quartieri. Arrivato in Libia cinque anni fa, ha speso finora più di 25 mila dollari per cercare di raggiungere l’Europa ma gli è sempre andata male ed è tuttora intrappolato a Tripoli. “Ho passato in fuga buona parte della mia vita - racconta - Quando ho lasciato l’Eritrea sono finito in Israele. Era il 2011. Sono rimasto lì sino al 2018, quando il governo mi ha costretto ad andare in Uganda. Dicevano che ci avrebbero dato asilo e opportunità di cominciare un futuro di libertà. In realtà non ho trovato alcuna possibilità di costruirmi in Uganda, come avevano promesso, una vita dignitosa e sicura e allora ho deciso di puntare verso l’Europa, passando dalla Libia. A Tripoli sono arrivato nel 2019 e la mia prima preoccupazione è stata quella di registrarmi presso l’Unhcr come richiedente asilo. Speravo di essere inserito in uno dei canali umanitari verso l’Italia o un altro paese occidentale. Ma questa possibilità è tramontata con il passare del tempo. E non ho avuto fortuna neanche con uno dei barconi dei trafficanti. Ho vissuto sempre nascosto, cercando di non dare nell’occhio. Sempre con la speranza di potermene andare da questo paese. Poi, la notte del 30 giugno scorso, nell’alloggio dove abitavo con altri migranti, è arrivata la polizia. Così sono finito in prigione. Per fortuna ho potuto procurarmi del denaro: per uscire ho pagato duemila dollari. Ora devo ricominciare tutto da capo, ancora una volta. Abito in una casa dei sobborghi insieme a numerosi altri profughi come me. Alcuni hanno perso la testa per quello che hanno patito. Io stesso ormai non riesco più a dormire: ogni notte sto sul chi vive, sempre con la paura che ci sia un’altra retata della polizia…”.

Sono le stesse autorità libiche, del resto, a sottolineare il grande numero di arresti a terra, oltre che dei blocchi in mare. Non si fa cenno, ovviamente, alla sorte terribile che attende i ragazzi catturati e deportati nei centri di detenzione, ma ogni giorno viene stilato un rapporto riassuntivo, quasi a documentare “in cifre” come venga svolto con grande efficacia il ruolo di “gendarme anti immigrazione” affidato dall’Italia e dall’Unione Europea prima a Tripoli e ora, pare, anche al generale Haftar, il “signore della guerra” che controlla il governo di Bengasi e Tobruk. E proprio queste “cifre” devono aver indotto l’Italia ad esprimere a più riprese lodi e gratitudine al governo di Tripoli e ad estendere poi questa “pratica”, sempre d’intesa con la Ue, alla Tunisia, con un accordo che sembra la fotocopia del memorandum Italia-Libia del 2017 e delle intese di collaborazione che ne sono seguite.

Nessuno sembra ricordarsi più, invece, dell’accordo sottoscritto a fine novembre 2017 ad Abidjan, in Costa d’Avorio, nell’incontro tra l’Unione Europea, l’Unione Africana e la stessa Libia. Si decise, in quell’occasione, di organizzarsi per trasferire dalla Libia almeno 5 mila profughi/migranti al mese, sia attraverso rimpatri volontari e concordati sia attuando un vasto programma di relocation verso diversi Stati occidentali. I rimpatri procedono a rilento e spesso sono tutt’altro che volontari: molti migranti accettano di “tornare a casa” solo per sottrarsi all’inferno dei lager libici. Quanto alla relocation, il progetto si è presto bloccato perché quasi tutti i governi che avevano aderito si sono rapidamente tirati indietro, facendo naufragare, tra l’altro, la funzione del centro di accoglienza e transito aperto a Tripoli dall’Unhcr proprio per organizzare i trasferimenti dalla Libia. L’unico effetto positivo è stata l’accelerazione delle registrazioni Unhcr dei richiedenti asilo che, arrivate a diverse decine di migliaia, hanno quanto meno evidenziato le dimensioni del problema, oltre a fornire un documento di tutela. Quel documento che ora, secondo le denunce di numerosi rifugiati, assai spesso la polizia e le milizie libiche nemmeno riconoscono più. Nel silenzio assordante di Roma e Bruxelles.