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di Lodovico Poletto

La Stampa, 22 settembre 2023

Nel centro di accoglienza di Torino gli immigrati sono costretti a dormire in piccole tende canadesi: non esistono attività ricreative e didattiche I volontari della Croce rossa cercano di compensare le troppe carenze: “Una 17enne arrivata da sola dorme in ufficio, non potevamo lasciarla nel campo”.

Scalzo, nel piazzale inondato dalla pioggia appena caduta, Nabi, 25 anni, originario del Mali, gioca a pallone. Per mangiare c’è tempo. E poi chissà quanto dura questo sole tenue che s’è appena affacciato? E allora lascia le ciabatte e tira l’ennesima pallonata all’amico dall’altra parte del piazzale. Tanto la coda sotto i portici dell’ingresso del centro di accoglienza è ancora stra lunga. E poi oggi servono minestrone e insalata e cotolette di pollo. Fa una smorfia e un gesto con le mani: “Poi mangio, poi”.

No, questa non è Lampedusa, torrida e polverosa. Questa è Torino: asfalto, cielo scuro e pioggia. Una città che i quasi 600 del centro di accoglienza neanche sanno indicare sulla carta geografica. “France?” La Francia? Il sogno è ancora lontano, se mai ci arriveranno. “Bolzano?” domanda qualcuno. Sperando in una strada più facile verso la Germania, oppure l’Inghilterra o chissà, Svezia, Norvegia, Belgio. Il sogno è tutto.

Sdraiata sul letto che i volontari della Croce Rossa le hanno allestito all’interno del loro ufficio, Agia, 17 anni, neanche si alza. Dorme. Si rigira. Guarda il mondo che le scorre davanti senza dire una parola. “L’abbiamo sistemata qui perché è una ragazza arrivata da sola e non potevamo lasciarla lì, nel campo” dice Manlio Nochi, l’uomo della Cri che cerca di mettere ordine e organizzare questo posto che accoglie i migranti che, dalla Sicilia, hanno trasferito qui con i bus della Protezione civile. “Non abbiamo risse, ci sono anche tende a sufficienza per tutti gli ospiti” racconta chi gestisce. Si potrebbe fare di più? Forse. Ma bisognerebbe avere altre risorse, altri spazi. Altre prospettive. E forse anche altre tende, non queste canadesi formato.

Ma qui prospettive non ce ne sono. In giorni di ricerca non è stato trovato uno spazio più adatto, più grande, dove si potrebbe anche fare di più. Ma non c’è. E il centro accoglienza di via Traves, periferia semi-disabitata della città, non lontana da dove sorgeva l’ex stadio Delle Alpi, era nato per ospitare migranti di passaggio e - nei giorni più freddi d’inverno - i senza tetto - non ha mai accolto così tante persone. Quel che c’è di buono è che non ci sono fili spinati. Non ci sono guardie armate. Non ci sono soldati in divisa e sopra i gipponi. E c’è di buono che le mamme con i bimbi se ne stanno tutte insieme sotto una tenda bianca, ampia, montata sul piazzale davanti all’ingresso. Sembra quasi una casa. Anche se ci sono soltanto brandine. Sembra un posto decente. In attesa di qualcosa di meglio.

Beppe Vernero che delle Cri torinese è il presidente ieri mattina ha aggiornato l’elenco dei presenti e adesso fa i calcoli: “In tutto abbiamo 586 presenti, di cui una quarantina sono i minori”. E non sono soltanto bambini. Sono adolescenti: hanno 15, 16, 17 anni. Li guardi sembrano già uomini. Ma con sogni e gesti ancora piccini. “Abbiamo anche molti feriti dell’incidente accaduto alla periferia di Roma: vanno curati, medicati quotidianamente, assistiti”.

Ore 13, l’ora di pranzo, Omar 16 anni, s’infila nell’ufficio e domanda qualcosa per il mal di testa. Poi indica l’occhio sinistro. Gliel’hanno suturato dopo lo schianto del bus: cinque punti, che oggi o domani, dovranno levargli le crocerossine che vengono qui a fare volontariato. “Domani, domani”. È tutto domani. Saranno tolti i punti di sutura. Ci sarà la pasta per pranzo. Ci saranno altri vestiti. E magari ci sarà anche il sole. Così mangiare seduti per terra, davanti al centro di accoglienza, tra l’asfalto e le erbacce, non sarà più così misero e triste. E non si bagneranno neanche i pantaloni, che averne un paio di ricambio è un bel problema. Per fortuna che c’è la Caritas che porta ciò che ha, oppure ha raccolto attraverso i suoi canali. Fino a qualche mese fa distribuiva ai profughi ucraini. Adesso s’è attrezzata per far fronte a questa nuova emergenza.

Nell’ufficio adesso Massoud e Mohamed spezzano le pagnotte arrivate nei sacchi di carta. Se non fai così non c’è nemmeno pane per tutti. Arrivano le cassette con le pere quelle con le mele. Arriva altra insalata. “L’olio, non hanno mandato l’olio”. Si deve fare con quello che c’è, nell’unica bottiglia rimasta. “Qui devi trovare soluzioni ad ogni problema, inventarti il modo di far contenti tutti. Non emarginare, ma accogliere”. E Manlio Nochi spegne l’ennesima sigaretta della giornata: “Presto ci diranno anche come sta quell’altro ragazzo”. “Quell’altro” è uno dei feriti nello schianto del bus. Sembrava stesse bene dopo l’incidente, anche se aveva male alle braccia. E allora qualcuno lo ha messo su un altro mezzo e spedito qui. Ma stava malissimo. E allora Vernero e i suoi lo hanno portato in ospedale. È bastata una radiografia: aveva entrambe le braccia fratturate. Una storia minima, tra le tante che circolano qui, sussurrate più che raccontate. E comunque è una storia che racconta di accoglienza. Che fa capire il vero senso delle parole “voler bene a qualcuno”.

Habib adesso sta in piedi sopra un blocco di cemento. Morsica la pera e si mette in posa davanti alla fotocamera del cellulare. Click. “Look” fammi vedere. Ed è un dialogo a gesti, a mezze parole, tra il francese e l’inglese: “Ho tre fratelli. Loro sono ancora in Mali. Io sono via da casa da tre anni”. Vuoi rimanere in Italia? “Yes. Italia. Viva Italia. Thank you”. Di cosa grazie? Allarga le braccia: “Thank you”.