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di Ferruccio de Bortoli

Corriere della Sera, 23 luglio 2023

Per assicurare la dignità delle persone di età avanzata, e non solo l’assistenza quando la salute comincia a cedere, sono necessari una presa di coscienza individuale e un salto culturale.

Le immagini del funerale delle sei vittime dell’incendio nella “Casa dei coniugi”, in un Duomo di Milano semideserto, hanno suscitato una profonda tristezza. E non solo per quelle vite perdute ma anche per la teatrale rappresentazione del senso di solitudine che pervade l’esistenza di molti anziani. In una società, che purtroppo invecchia sempre di più, il crescere della fragilità si accompagna alla perdita della dignità, alla cancellazione della cittadinanza. Ed è intollerabile, specie dopo la tragedia del Covid. Il numero degli anziani non autosufficienti è ormai di tre milioni. Crescerà a dismisura come effetto della diffusione delle malattie croniche legate all’età. Non è una previsione, è una certezza. Carlo Maria Martini sosteneva che, negli ultimi anni della nostra esistenza, diventiamo tutti mendicanti. Abbiamo sempre più bisogno degli altri. A patto che ci siano, però. Una società civile non dovrebbe far sentire gli anziani dei mendicanti. A maggior ragione se hanno una condizione economica disagiata, vivono soli e lontani dai parenti (spesso assenti). A Milano - ma l’esempio vale per altre città e paesi - la metà dei nuclei familiari è composta da un’unica persona, spesso molto avanti con l’età. Sul piano più generale dell’assistenza agli anziani, il 21 marzo è stata approvata dal Parlamento, una legge delega.

Vi hanno proficuamente collaborato 59 associazioni aderenti al Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza. La riforma dovrà essere finanziata (ci vogliono a regime dai cinque ai sette miliardi l’anno) con la prossima manovra di bilancio. La strada è giusta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevede che entro il gennaio prossimo vengano emanati i decreti attuativi. L’amara realtà è che della riforma ci siamo già dimenticati. Le priorità sono altre. Per assicurare la dignità dell’anziano, la piena consapevolezza e l’esercizio in libertà dei propri diritti, e non soltanto l’assistenza quando la salute comincia a cedere, sono necessari una presa di coscienza individuale e un salto culturale. In altri Paesi europei, con una condizione demografica migliore di quella italiana, esiste il mandato di protezione per futura incapacità, previsto peraltro da una convenzione internazionale dell’Aia del 2000, che noi non abbiamo ancora ratificato. Esistono è vero, nel nostro ordinamento, misure pubblicistiche come la tutela e la curatela, ormai in disuso, e la nomina da parte di un giudice di un amministratore di sostegno. Ma ciò avviene quando ormai l’anziano ha perso la propria capacità cognitiva. Non decide lui, decide e non sempre con la tempestività necessaria, un giudice per lui. Meglio pensarci prima. Come? Nominando un mandatario che si occupi - un po’ come avviene con il testamento biologico o la legge del “Dopo di noi” per i disabili gravi - dei propri averi e delle necessità contingenti. Ma solo nel momento in cui il mandante non potrà più farlo. Il mandatario è una persona (anche giuridica) di fiducia, un professionista, non necessariamente un familiare. Non interferisce nei diritti degli eredi, casomai li garantisce. Il giudice, in questo caso, sorveglia solamente.

Riconoscere la possibilità di un decadimento del proprio fisico e della propria mente è esercizio civile di saggia preveggenza. Rispetta la libertà di autodeterminazione. Contribuisce a togliere la condizione del fine vita e il rischio di un decadimento delle nostre facoltà da quella “zona grigia” del senso comune che oscilla tra superstizione, fatalismo e vergogna di mostrarsi “non più come prima”. Prevenire la fragilità è un gesto di forza. Significa dire agli altri: “Io deciderò di me stesso anche nel caso in cui non sarò più in grado di farlo”. “Viviamo in un Paese - spiega Arrigo Roveda, tra gli autori di una proposta del Notariato in tal senso - nel quale solo l’11 per cento delle successioni è regolato da un testamento. Non ci si pensa. Ma quando si perde la capacità cognitiva chi decide della nostra esistenza? Anche solo per pagare banalmente una badante, per gestire al meglio la casa e la condizione di chi ci vive. A volte, però, ci sono di mezzo imprese, con azionisti e lavoratori”. Roveda è il notaio che ha raccolto il testamento di un anziano e noto signore il cui funerale, nel giugno scorso, ha riempito il Duomo e la piazza.

“In altri Paesi, il mandato non solo esiste ma è promosso, incoraggiato, e ciò mette in luce tutto il nostro ritardo culturale - è l’opinione di Pietro Franzina, ordinario di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano - solo in Germania sono già stati registrati 5 milioni e 650 mila mandati. Il paradosso è che noi abbiamo 6 milioni di italiani che vivono all’estero e il loro mandato - se decidono, come accade frequentemente, di sottoscriverlo - non vale nel nostro ordinamento, infliggendo così un danno ingiusto, non solo all’anziano, ma anche a chi gli sta accanto. Purtroppo il decadimento cognitivo conserva da noi una sorta di stigma che porta alla rimozione della realtà. Accettarlo vuol dire affrontare lo scorrere inesorabile degli anni a testa alta, a difesa della propria dignità di persona”. Senza scadere nella dimensione del mendicante di cui parlava Martini o peggio - come ha detto sconsolato nella sua omelia al funerale delle vittime dell’incendio l’arcivescovo Mario Delpini - diventare solo il fascicolo di una pratica.