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di Gustavo Zagrebelsky

La Repubblica, 10 gennaio 2024

Ogni Carta che si rispetti è regolata da principi guida che non sono da interpretare, ma che tutelano la libertà in uno Stato democratico. La riflessione del giurista mentre riesce il suo saggio “Il diritto mite”. La Costituzione è ricca di norme di principio. Sulla loro natura ci sarebbe molto da ragionare. Soprattutto, si deve distinguerle dalle norme-regole. I principi non sono regole come tutte le altre, semplicemente “più generali”. La differenza è così grande, da mettere in discussione l’armamentario giuridico che proviene dallo stato di diritto che abbiamo ereditato dalla civiltà giuridica dell’Ottocento.

Innanzitutto, i principi hanno un duplice volto, stando all’inizio dell’argomentazione giuridica e prefigurando la fine. All’inizio, suggeriscono l’orizzonte entro il quale la realtà di fatto deve essere “compresa”, cioè categorizzata secondo senso e valore. In breve, stabiliscono come i “fatti” devono essere trasformati in “casi” giuridici. In secondo luogo, indicano la direzione lungo la quale i casi devono sciogliersi nella decisione. In entrambi i momenti esiste spazio per i “punti di vista” attraverso i quali i concetti costituzionali si riempiono di contenuto attraverso le loro concezioni. Precisamente in questo doppio lato delle norme-principio, all’inizio e alla fine dell’argomentazione, entrano in gioco le possibili concezioni dei concetti costituzionali.

E qui trova spazio il compromesso. Su mere regole, cioè su norme che tracciano i confini in modo netto tra ciò che è vietato, imposto o permesso, nessun compromesso è possibile: aut-aut, bianco o nero. Le norme di principio, invece, permettono accordi non definitivi che si possono cambiare e correggere, a seconda dei tempi e dei rapporti di forza legittimamente verificati secondo le procedure della democrazia. Ma, quali che siano tali rapporti, mai si giustificherebbe, alla luce della Costituzione, lo spegnimento delle ragioni delle parti più deboli. Questo è uno dei significati della mitezza del diritto. La protezione delle parti deboli nei conflitti politici.

Il “diritto mite”, circa natura dei principi, si basa sulla convinzione che le norme di principio hanno una struttura che le distingue dalle regole non per grado di generalità ma per struttura. Come si può negare l’evidenza? L’evidenza è che esse, a differenza delle norme-regole, non hanno fattispecie. Per questo, pare giustificata questa proposizione: alle regole si può ubbidire (o disubbidire) perché dicono ciò che è dovuto in precise situazioni di fatto; ai principi si può soltanto aderire (o non aderire) come opzioni di valore.

Dov’è la fattispecie quando si parla di dignità umana, libertà, solidarietà, uguaglianza, lavoro, salute o cultura, eccetera, e li si dichiara “beni” desiderabili o, addirittura, inviolabili? La fattispecie che, per così dire, rende operativa la norma di principio non è fornita dalla descrizione contenuta nella norma ma è determinata dall’esterno, dai casi della vita che la norma-principio non prefigura. Sono i casi della vita che forniscono la “fattispecie concreta” che, per così dire, fa scattare il principio, una volta che si ritenga che essi entrino nel raggio del “bene” o del “male” che il principio propone all’azione o alla decisione. Su questa differenza non mi pare necessario soffermarsi, tanto pare chiara.

Invece, può essere utile mettere in rilievo il rovesciamento di prospettiva nell’applicazione delle norme-principio, rispetto alle norme-regole. Le norme-regole mettono in moto ragionamenti deduttivi dal precetto al caso descritto astrattamente nella fattispecie legale e constatato nella realtà delle cose. I principi invece si mettono in moto solo quando sono sollecitati da casi verificatisi nella realtà delle cose, una volta che li si ritengano tali da implicare il bene o il male ch’essi raccomandano. La riprova sta nella circostanza che i principi, i commentatori li possono riempire di contenuto pratico solo a partire da casi tratti dalla realtà della vita o ipotizzati nell’immaginazione. Altrimenti, si possono produrre soltanto tautologie, cioè parole su parole che girano su sé stesse. Consideriamo la dignità.

Possiamo spiegare le ragioni storiche e morali che hanno portato questo principio ad occupare un posto di primo piano nelle costituzioni (e nelle dichiarazioni internazionali) che hanno fatto seguito, come reazione, agli orrori dei totalitarismi del secolo scorso. Ma, per l’appunto, per dare contenuto, occorre fare riferimento a tali orrori per dire: mai più. Forse, sperabilmente, saremmo tutti d’accordo nel considerare contrari alla dignità umana le politiche eugenetiche, l’uso di esseri umani indifesi come cavie, lo sfruttamento schiavistico, gli stermini di esseri umani, le “pulizie etniche” e razziali. Il fatto che in questi casi si sia, presumibilmente, tutti d’accordo rende meno visibile il modo di procedere dai casi alla norma e fa sembrare che si proceda dalla norma ai casi.

Ma, in situazioni opinabili, che cosa diremmo? Sono quelle che la giurisprudenza ha affrontato dovendo stabilire se un certo caso sia rilevante rispetto al principio. Per esempio, viola la dignità delle persone la produzione di videogiochi che distribuiscono premi nella misura delle vittime (virtuali) che il giocatore riesce a collezionare? Oppure, è conforme alla dignità uccidere o torturare individui per salvare la vita di altre persone (per esempio, abbattere aerei usati come armi terroristiche o usare violenza per indurre alla confessione coloro che tengono sotto sequestro altri individui oppure sono a conoscenza di un attentato imminente che potrebbe essere sventato)? Oppure, e per venire a interrogativi che le vicende odierne ci pongono di fronte senza possibilità di chiudere gli occhi: è rispettoso della dignità il “carcere duro”, o forse anche il carcere per così dire semplice, in condizioni di sovraffollamento e di alienazione, oppure il regime carcerario perenne senza prospettive di almeno parziali e temporanei contatti con la vita sociale esterna?

Sono domande specifiche difficili cui la norma di principio non dà risposta da sé. Se la desse, non sarebbe principio, ma regola. La risposta, anzi “il principio di risposta” è sì contenuta nella norma-principio ma solo dopo che si sia deciso d’interpellarla. La norma non aiuta di per sé, ma solo dopo che si sia ritenuto di doversi fare aiutare. Il principio è certamente cogente, anzi più cogente di una regola, la quale può sempre essere sottoposta a cavilli parola per parola. Più cogente perché il principio non si interpreta ma, cose si è detto, richiede adesione. Implica un atteggiamento che va al di là del ragionamento giuridico; implica un atteggiamento etico.

Orrore! direbbero, anzi dicono coloro che si potrebbero chiamare i “gius-positivisti della Costituzione”, coloro che temono la contaminazione del diritto con la morale o con il diritto naturale. Sarebbe una nefasta “moralizzazione del diritto”. Se il diritto per principi richiede “adesione”, esso escluderebbe l’esercizio “laico” del senso critico nei confronti del diritto stesso. Il diritto per principi sarebbe in sé stesso un “diritto etico”. È così? A prima vista può sembrare che sia così. Le norme di principio usano parole che rinviano a concetti come giustizia, libertà, solidarietà, bene comune, eccetera, che troviamo nei discorsi dei moralisti e dei giusnaturalisti.

Ma, i principi costituzionali non sono dogmi che calano dall’alto. Sono, per così dire, contenitori che richiedono che li si riempia a partire dal basso, discorsivamente, con il contributo di coloro che partecipano al discorso pubblico e fanno uso della propria libertà. La pratica dei principi, in contesti di libertà e democrazia, significa partecipare a discussioni “di principio”, non subire imposizioni. I principi non chiudono ma, al contrario, spalancano la strada agli atteggiamenti morali critici. Se poi, come accade nelle grandi questioni costituzionali che sono spesso assai complesse, i principi in gioco sono più di uno, il ragionar per principi diventa un ragionare “relazionale”, un ragionare critico. Il che, di nuovo, è il contrario della adesione o della soggezione passive a una qualche morale imposta.

Il libro - Il diritto mite. Legge diritti giustizia. Nuova ediz. di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi, pagg. 224, euro 21)