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di Otello Lupacchini*

Il Riformista, 4 aprile 2022

Aristotele, nei Topici [VIII 164b], raccomanda di non discutere con chiunque, perché, in realtà, quando si discute con certe persone, le argomentazioni divengono necessariamente scadenti: quando ci si trova di fronte a un interlocutore, che cerca con ogni mezzo di uscire indenne dalla discussione, lo sforzarsi di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante.

Per questa ragione, dunque, eviterò di confrontarmi con faciloneria coi primi venuti, poiché non intendo giungere a discussioni velenose e voglio evitare confronti agonistici. In fondo, che senso avrebbe, per esempio, opporre a chi polemizza a proposito del d.l.gs 188/2021 sulla presunzione di innocenza, arrivando ad affermare, con buona pace della necessità incontrovertibile di tutelare gli imputati, che non possono definirsi colpevoli fino alla sentenza definitiva, che la nuova legge “A me non (…) chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto.

Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa”, che uniche danneggiate dalla legge stessa sarebbero “certe Procure, che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, che è quanto ci possa essere di più pericoloso, incivile, illiberale e arbitrario per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa”? Nessuno, se non magari quello di radicalizzare le posizioni senza costrutto. Il primo ribadirebbe, infatti: “non ho alcun dubbio sugli effetti negativi della legge sulla presunzione di innocenza (…), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali”. Il vero problema, aggiungerebbe, è che la rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ed esternerebbe, finalmente, il timore che “non parlandone, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra non esistano”; la paura che “di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio”; non senza aggiungere: “Se la ‘ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste”. A questo punto, occorrerebbe involgersi in faticose spiegazioni di teoria generale del processo, peraltro con poco profitto per l’interlocutore, che, ne sono convinto, s’annoierebbe moltissimo.

Il problema, piuttosto, è un altro. Non vi è giorno, infatti, in cui non sia dato di constatare l’organizzazione scientifica della ciarlataneria. Le ragioni che inducono a una così cupa constatazione sono le più svariate, non ultima, se non addirittura la prima fra tutte, che l’uomo non sa più tacere: se il silenzio è d’oro, parrebbe proprio che questo prezioso metallo sia scomparso dalla circolazione spirituale come da quella monetaria. Nel Vangelo si rinviene l’ammonimento che, “nel giorno del giudizio, gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detta” (Mt., 12, 36). E anche Martin Heidegger, uno dei più forti pensatori dell’esistenzialismo tedesco, si richiama alla parola, allorché distingue fra la vita autentica, quella cioè di chi vive nella contemplazione della morte, e la vita non autentica, che è quella di chi volge gli occhi da un’altra parte, non osando pensare alla sua fine: nel descrivere questo secondo tipo di vita, non degna d’essere vissuta, il filosofo ricorre a una parola francese, di non facile traduzione nella nostra lingua, il “bavardage”. In sostanza, “bavarder” vuol dire ciarlare, ma l’idea precisamente è quella che si legge nel Vangelo: parlare ozioso. Per pensare si deve essere in due e le parole servono a far pensare; oziose, dunque, sono le parole che non riescono a far pensare, a produrre delle idee, le quali, per essere tali, devono consentire di scoprire qualcosa di nuovo nel mondo. Quelle provocate dal bavardage sono, pertanto, pseudo-idee: esse non fanno procedere d’un passo la conoscenza; dopo un’ora di ciarle, infatti, le persone si lasciano più vuote di prima.

Le parole oziose, pur non facendo pensare, non impediscono di pensare. Occorre chiedersi, però, se ci siano parole che impediscono di pensare; se l’abuso della parola possa arrivare al punto di cavarne il risultato contrario a quello per cui è stata creata; se, insomma, la parola strumento di libertà possa stravolgersi in parola strumento di servitù. Che la parola sia strumento di libertà, muovendo dalla libertà di chi parla e sollecitando la libertà di chi ascolta, è espresso dal verbo latino “suadere”, che in italiano si rafforza e diventa persuadere, parole che evocano la “suavitas”. Non è, dunque, un caso che al fine d’ottenere l’effetto persuasivo occorra soavità: la scelta e il tono delle parole, là dove si voglia sollecitare e non sopprimere la libertà dell’altro, giovano più di quanto non si creda. Il mezzo del persuadere è suggerire; offrire cioè un’idea, che l’altro possa far propria se gli piace o respingere se non gli piace; ma quest’idea dev’essere offerta in modo così discreto che neppure s’adombri un’offesa alla libertà dell’altro, il quale la possa far sua come s’egli stesso l’avesse pensata. L’uomo non pensa che il pensiero proprio; se il proprio coincide con l’altrui, ciò non può avvenire se non in quanto l’altrui sia liberamente accettato. Se non pensare, l’uomo può agire in virtù del pensiero altrui.

Così avviene quando il costringere prende il posto del persuadere. Il problema è, allora, se si possa costringere con le parole. L’esperienza della nostra realtà contemporanea è lì a dimostrare che si può abusare delle parole; e questo è uno dei suoi aspetti più sconcertanti e pericolosi. Nulla è più lontano dal persuadere che il discorso di uno dei quei venditori sulle piazze, ai quali si dà il nome di ciarlatani. La differenza fra il discorso del ciarlatano e un discorso persuasivo è la stessa che corre fra il rumore e l’accordo. Arthur Schopenhauer, per sostenere che “la vista è un senso attivo e l’udito un senso passivo”, ha scritto che “i suoni agiscono disturbando e agitando il nostro spirito (…) distraggono tutti i pensieri, sconvolgono momentaneamente la forza del nostro pensiero”. L’osservazione, evidentemente sbagliata per il suono, è giusta comunque per il rumore, che quando raggiunge la misura del fracasso impedisce di pensare. La ciarlataneria, rispetto al passato, ha oggi assunto nuove forme: i Dulcamara non s’incontrano più neppure sui mercati di campagna e quella che un tempo si chiamava “réclame” si è via via meglio truccata sotto il nome di “propaganda”, la cui tecnica è oggi fondata sulla ripetizione.

L’essenza del ciarlatano, infatti, non è più il rumore, ma il ronzio, che di quello è di gran lunga peggiore: qui non si tratta più di suggerimento, ma di suggestione. La propaganda, portando un attentato alla libertà dell’uomo è pur sempre un male. Piccolo, magari, se riguarda la scelta di una merce, ma intollerabile quando riguarda la scelta delle forme e delle norme della struttura sociale, essenziali alla nostra vita, perché, come diceva Heidegger, il nostro “Sein” è “Mit-sein”, il nostro essere è essere insieme. E questo esige una regola, un regime o meglio sarebbe dire un reggimento, che risulti dall’accordo di tutti quanti costituiscono l’insieme. L’accordo di tutti presuppone la libertà di ciascuno. E questo vuol dire democrazia, la quale esigendo che ognuno pensi con la propria testa, favorisce sì l’eloquenza e la persuasione, ma rifiuta la propaganda, poiché essa offende la libertà. In linea d’abuso della parola, il bavardage, la ciarla, il pettegolezzo non costituiscono il danno più grave: il ciarliero è meno nocivo del ciarlatano, poiché il primo, che si limita a non pensare, rovina sé stesso, mentre il secondo rovina gli altri, ai quali impedisce di pensare. E fino a quando non si sentirà l’esigenza di liberarsi degli imbonitori da fiera, lasciando finalmente spazio soltanto a indicazioni sobrie e decorose, rispettose della dignità dei contendenti e della libertà dei cittadini, la democrazia non potrà essere che un’illusione.

*Giusfilosofo e magistrato in pensione