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di Stefano Allievi

Corriere del Veneto, 29 novembre 2024

È un bene che si sia aperta la discussione sulla condanna di Filippo Turetta, sull’utilità dell’ergastolo, sui limiti della difesa. È un bene, perché quello della giustizia e della pena è un tema cruciale per la convivenza civile, ma pur essendo tra i più discussi è anche tra quelli meno ragionati nei suoi fondamentali, nelle sue implicazioni, nella sua efficacia, anche. Tutti piangiamo le vittime, tutti vorremmo la condanna dei colpevoli, tutti chiediamo giustizia. Ma in concreto, cosa significa? L’idea di giustizia, certo, ha a che fare con la violazione delle norme, e la punizione del colpevole. La giustizia è fondativa perché la violazione della norma, se non punita, mette in crisi la fiducia nella società, la sua stabilità, la sua stessa esistenza.

Ecco perché l’ordine va ripristinato, anche ritualmente (non a caso il processo è esso stesso un rituale, una sacra rappresentazione, con i suoi sacerdoti, i paramenti, i comandamenti, i giuramenti…). Ma basta, tutto questo? E basta la galera per risolvere il problema? Temiamo di no. Perché c’è un ordine civile, sociale, e un ordine morale, che non a caso, all’origine, si sovrapponevano: è per questo che il carcere si chiama anche penitenziario (dove si fa penitenza, non solo dove si sconta la pena, la condanna), e quello minorile correzionale (dove c’è la possibilità di correggersi, di cambiare), e pena significa sia dolore che castigo. E tuttavia della funzione morale c’è sempre meno traccia.

Il carcere (che vuol dire recinto) dove mettiamo il prigioniero (da prehensus: preso, chiuso) svolge pochissimo la funzione rieducativa che pure prevedrebbe l’articolo 27 della Costituzione: e sempre più ha una mera, seppure ovviamente necessaria e imprescindibile, funzione repressiva, non di rado vendicativa (come quando ripetiamo la frase “chiudiamoli in cella e buttiamo via la chiave”). Con il risultato che i tassi di recidiva sono elevatissimi, e a seconda dei reati possono arrivare a due terzi dei detenuti: il che significa che il carcere finisce per non servire a null’altro che a svolgere una funzione immobilizzativa - un mero parcheggio umano.

Ma è paradossale: se la scuola producesse due terzi di bocciati, ci interrogheremmo su come è organizzata, a cosa serve, se svolge correttamente la sua funzione. Perché il carcere no? Forse perché abbiamo ridotto la giustizia a mero tecnicismo, in cui solo dei terzi non coinvolti (giudici, avvocati) agiscono, e le persone direttamente interessate (il colpevole, la vittima, i familiari) non svolgono alcun ruolo, e quasi non hanno diritto di parola: con il risultato che diventa più difficile la riflessione autentica, e la stessa presa di coscienza del male che si è fatto, con le evidenti conseguenze in termini di ripetizione del medesimo. Certo, ci sono ottime ragioni perché sia così: la giustizia è un bene che va garantito a tutti. E non ci sono facili ricette per modificare la situazione. Ma una riflessione collettiva forse andrebbe fatta. Ripensando le forme della giustizia, gli spazi possibili di mediazione, il ruolo delle pene alternative, la necessità di un lavoro rieducativo vero (per il quale si spende invece, in proporzione ai costi totali, pochissimo), i suoi costi rispetto ai suoi benefici, anche. Toccando pure la questione spinosa dei limiti stessi della pena. Lo abbiamo fatto in passato con l’abolizione della pena di morte. Forse, nella medesima ottica, si può ragionare rispetto all’idea stessa di ergastolo, di “fine pena: mai”.

Certo, conosciamo la difficoltà di affrontare questi ragionamenti, il bisogno immediato e profondo che abbiamo di ripristino dell’ordine, il diritto a vedere riconosciuto simbolicamente e praticamente il torto fatto, il diritto/dovere di veder pagare per il male compiuto, il risarcimento dovuto alle vittime e alla società tutta, le cui norme di convivenza sono state violate. Senza tutto questo la società non esisterebbe, e dunque si tratta di un bene prezioso, che va salvaguardato. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di interrogarci sulle sue forme e in definitiva sulla sua efficacia, nel breve e nel lungo termine. Anche, forse soprattutto, per questioni di principio, alte, morali, fondative.