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recensione di Sabino Cassese

Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2022

“Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”, di Luciano Violante e Stefano Folli (il Mulino, pagg. 158, € 13).

I cronisti giudiziari di una cittadina meridionale hanno organizzato una protesta quando si sono resi conto che le norme sulla presunzione di innocenza avrebbero impedito la diffusione di notizie riservate relative alle inchieste giudiziarie.

Questa è un’ulteriore prova del circuito mediatico-giudiziario che si è prodotto in Italia e che ha contribuito al discredito della magistratura. Un tema sul quale sono stati scritti molti libri recenti (ricordo soltanto quelli recentissimi di Bruti Liberati, Pignatone e Gargani). A questi se ne aggiunge ora un altro. L’hanno scritto Luciano Violante, che unisce allo sguardo acuto dello studioso l’esperienza concreta del protagonista, e Stefano Folli, osservatore, analista e commentatore attento del nostro sistema politico.

Questo volume tratteggia la storia della magistratura nel dopoguerra, ma principalmente contiene una ricostruzione degli anni detti di tangentopoli e dell’aureola di eroismo che circondava allora la magistratura. Segnala l’invasione di nuovi spazi da parte dell’ordine giudiziario e indica i modi per recuperare l’architettura istituzionale del Paese.

Il libro lamenta il degrado progressivo di magistratura e politica, la diffusione dell’idea di sé stessa della magistratura come un corpo separato, guardiano dei costumi e dei valori; la sua illusione di una palingenesi morale per via giudiziaria; la diffusione della cappa del sospetto permanente di illecito; la ricerca del consenso popolare diretto da parte dei magistrati. Conclude dicendo che la magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia.

Violante e Folli segnalano che, dopo il 1992, si sono svolte parallelamente due vicende, la crisi dei partiti e l’egemonia assunta dall’ordinamento giudiziario, con un progressivo indebolimento della politica. Mentre nel passato la minaccia all’indipendenza veniva dall’esterno, oggi viene dall’interno, a causa del peso delle correnti e dei capi corrente nel Consiglio superiore della magistratura. La prova è nel fatto che due Pm hanno fondato due partiti.

Gli autori sottolineano l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale, segnalano l’abuso del potere inquirente, criticano l’uso di strumenti di investigazione illimitati, l’abuso delle intercettazioni, la loro pubblicità per soddisfare la curiosità morbosa del pubblico e screditare moralmente le persone. Così le informazioni di garanzia servono a stabilire un intreccio tra procura e mezzi di comunicazione. Si crea un rapporto viziato tra media e procure.

Gli autori non escludono che a tutto questo concorrano altri elementi, come norme penali indeterminate che delegano ai giudici il compito di decidere, la presenza di magistrati in tutti gli altri poteri dello Stato, la degenerazione correntizia utilizzata per controllare le carriere, la coreografia del potere con cui ama auto-rappresentarsi la magistratura.

In alcune pagine, allargano il giudizio alla storia italiana recente, lamentando che i doveri prevalgono sui diritti, le maggioranze parlamentari sono instabili, la politica è in una permanente campagna elettorale, il berlusconismo ha coltivato l’antipolitica. Al termine, gli autori osservano che occorrono interventi profondi, anche di carattere costituzionale.

Il Parlamento deve essere capace non solo di rappresentare ma anche di decidere, e occorre che vi sia un’area di decisioni politiche insindacabile dai giudici. Il Csm non deve essere un organo di autogoverno, non deve fare le leggi e amministrare. Le riforme in corso del governo Draghi meritano un giudizio positivo ma occorre invitare la magistratura a modificare i propri comportamenti. Un libro, in conclusione, acuto e coraggioso, che non si limita a segnalare storture e aberrazioni, ma propone anche rimedi e correzioni.