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di Greta Sclaunich e Chiara Severgnini

Corriere della Sera, 24 novembre 2023

Offrono strumenti utili, ma anche armi per umiliare, tormentare o spiare le donne. Sono un volano per idee all’insegna della parità, ma ospitano anche contenuti retrogradi. E c’è chi trasforma i temi di genere in slogan da monetizzare. Nella lotta contro la violenza sulle donne, social e Rete sono nemici o alleati? Riducono i temi di genere a slogan da sbandierare tra un post sponsorizzato e l’altro, o sono un volano capace di renderli più efficaci? Rispondere è difficile, ma chiederselo è necessario dato che ormai viviamo (anche) online.

Partiamo da tre punti fermi. Il primo: la Rete è uno strumento, può essere usato a fin di bene, ma anche per fare del male.Da un lato ci sono divulgazione, condivisione di informazioni e risorse utili (come le app che aiutano le vittime di violenza a chiedere aiuto); dall’altro cyberstalking, strumenti digitali che permettono ai violenti di spiare le partner e revenge porn, cioè la diffusione non consensuale di materiale intimo (le vittime, in Italia, sono 2 milioni, e il 70% è donna). Secondo punto fermo: i social polarizzano. È nella loro natura (gli algoritmi prediligono gli scontri, perché più redditizi), ma anche nella nostra (trincerarci dietro le nostre convinzioni ci viene naturale). Chi la pensa in un certo modo, tende a chiudersi in bolle social autoreferenziali. In alcune, “patriarcato” e “rape culture” sono espressioni ubique, in altre i versi delle canzoni trap che mercificano il corpo femminile sono considerati normali e le ragazze romanticizzano la possessività (“Voglio l’uomo geloso”, canta l’artista neomelodica Fabiana, e TikTok propone il brano tra quelli “popolari”). Terzo punto fermo: la Rete riflette chi siamo. Misoginia, pregiudizi e violenza nascono dentro di noi: i social li slatentizzano, o ne amplificano la visibilità. E così, stima l’European Institute for Gender Equality (Eige), una donna su dieci sperimenta una qualche forma di cyberviolenza prima di aver compiuto 15 anni; mentre, in Italia, le donne sono da tempo la categoria più odiata su X/Twitter secondo l’Osservatorio sui Diritti “Vox”.

Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: web e social come strumenti di rivendicazione, sensibilizzazione, autoeducazione. Certo, accanto a complessità, approfondimento e serietà, sulle piattaforme spopolano anche slogan semplificatori e strumentalizzazioni, con le battaglie più serie che rischiano di essere ridotte a trending topic o merci da monetizzare. Un Paese non si cambia a colpi di hashtag e il rischio che la causa femminista perda mordente a furia di essere banalizzata non va sottovalutato. Ci sono però messaggi che grazie ai social viaggiano più veloci che mai e che sembrano più forti di ogni semplificazione.

“Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”, ha scritto Elena Cecchettin, sorella della 22enne uccisa dall’ex fidanzato: parole in cui riecheggiano i versi dell’attivista peruviana Cristina Torre Cáceres. “Mamma, non piangere le mie ceneri (…) Mamma, distruggi tutto”, si legge nella sua poesia del 2017, oggi diventata virale. Un invito a smantellare le strutture di potere (reali) che nutrono la violenza. Non tutti coloro che l’hanno “condivisa” sui social passeranno dallo slogan all’azione, ma alcuni sì. I tre punti fermi ci portano qui: se le piazze virtuali svuotano quelle reali, perdiamo tutte e tutti. Se, al contrario, spingono più persone in strada, allora abbiamo una chance di vittoria in più. Tutte e tutti, anche offline.