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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 15 dicembre 2023

“The British people should decide who gets to come to this country - not criminal gangs or foreign courts” (“Il popolo britannico deve poter decidere chi può venire in questo Paese, non le bande criminali o i tribunali stranieri”). Così il primo ministro britannico Rishi Sunak, commentando con un tweet il passaggio parlamentare che consente di proseguire la procedura di approvazione del “Safety of Rwanda Bill”.

Si tratta della legge che dovrebbe superare la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito, che ha applicato i principi della Convenzione europea dei diritti umani citando la giurisprudenza della Corte europea e ha quindi ritenuto il Ruanda Paese non sicuro; ciò ai fini del trasferimento di migranti irregolari giunti dalla Francia attraverso la Manica.

Si tratta di una nuova legge, che impone a tutte le autorità, tribunali compresi, di considerare il Ruanda Paese sicuro, sospende alcune parti del “Human Right Act” del 1998 e rimette al Governo la decisione di dare esecuzione o di rifiutare le decisioni della Corte europea dei diritti umani nei suoi provvedimenti urgenti (come la sospensione delle espulsioni verso paesi non sicuri dal punto di vista del rispetto della Convenzione europea dei diritti umani). Sollevato dal timore di non riuscire a superare una tappa nell’iter parlamentare, per le tensioni interne alla maggioranza, ove una parte del partito Conservatore ritiene quella legislazione incompatibile con gli obblighi internazionali del Regno Unito e l’altra all’opposto propone di nuovo l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione, il primo ministro ha commentato il provvisorio successo scrivendo che sugli immigrati irregolari deciderà il popolo britannico, non le bande criminali, né le Corti straniere.

Si tratta della Corte europea dei diritti umani (di cui è componente anche un giudice britannico), organo del Consiglio d’Europa, istituzione europea fondata su un atto firmato a Londra il 5 maggio 1949, con il forte appoggio di Churchill, per curare la protezione dei diritti fondamentali delle persone. Recentemente, per le sistematiche violazioni e l’aggressione alla Ucraina la Russia ne è stata espulsa. Nel Regno Unito la voglia di uscirne è endemica: già Theresa May lo proponeva, quando era ministra dell’interno, prima della Brexit dall’Unione europea. Non tanto i contenuti, ma la natura sopranazionale della Convenzione e della Corte che ne assicura l’osservanza, sono insopportabili per la Destra nazionalista.

Così Sunak, in crisi secondo i sondaggi elettorali, indica la Corte europea come nemica della sovranità popolare (e quindi del Governo che ne è espressione elettorale). Si riferisce alla Corte europea, ma in effetti come già in passato nel Regno Unito il bersaglio sono i giudici interni -questa volta addirittura la Corte suprema - che applicano nel diritto interno i contenuti della Convenzione europea, secondo quanto prevede lo Human Right Act. Ancora in materia di immigranti, il rifiuto di dare esecuzione ad una decisione (urgente e provvisoria) della Corte europea, che ha sospeso un’espulsione verso la Russia, ha portato il governo francese a ignorare gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza al sistema della Convenzione. Non è la prima volta.

Anche l’Italia lo ha fatto anni orsono con una espulsione in Tunisia (all’epoca del presidente Ben Ali), ordinata dal ministro Maroni non ostante l’ordine di sospensione venuto dalla Corte europea. Ma quel che qui interessa è che l’espulsione disposta dal ministro dell’Interno Darmanin è stata annullata dal Consiglio di Stato, che ha ordinato di riportare in Francia la persona nel frattempo espulsa. Sarà forse impossibile, ma importa il principio che è stato affermato, secondo quanto è proprio dello Stato di diritto in Europa.

In Italia è ancora nella memoria di tutti la vicenda della decisione della giudice del tribunale di Catania sul trattenimento di certi migranti nei Cpr (Centri di Permanenza per i Rimpatri). Lo sguaiato attacco personale alla giudice da parte di esponenti governativi è stato in un secondo tempo sostituito da un ben educato, ma equivoco, invito alla magistratura a “leale collaborazione” con il Governo.

C’è un filo che lega le tre storie, di cui le politiche migratorie sono il sostrato politico dal forte impatto sull’opinione pubblica e sulle fortune o sfortune elettorali dei governi e dei partiti. Si tratta della insofferenza dei governi verso il potere giudiziario, quando questo svolge il suo ruolo di protezione dei diritti individuali: quei diritti e quelle libertà individuali che gli Stati d’Europa hanno riconosciuto essere sopranazionali, espressione in Europa della loro natura universale. I giudici -europei e nazionali- sono istituiti per assicurare che Convenzioni e Trattati non siano solo parole di cui bearsi al momento della firma, ma presidi reali garantiti alle persone individuali. Con la conseguenza, come è stato ricordato recentemente, che talora il senso delle decisioni e sentenze dei giudici hanno effetto antimaggioritario, contrario cioè agli orientamenti dei governi e della maggioranza parlamentare che li sostiene.

La tensione e contrapposizione tra poteri dello Stato, pur fisiologica quando è necessario, non è un fattore positivo. La materia delle migrazioni, anche sotto questo profilo, si dimostra piena di aspetti pericolosi di cui occorre tener conto. Essi non riguardano solo l’Italia, né l’Italia in modo particolare. Il tema ha la capacità di sollevare forti reazioni emotive, effetto di slogan grossolani in funzione elettoralistica. La resistenza alla strumentalizzazione politica dovrebbe accompagnarsi alla ricerca delle radici del presente stato di cose, in ordine alla gravità del problema democratico che coinvolge lo Stato di diritto e la separazione dei poteri che ne è una componente. Il fenomeno migratorio ha due aspetti difficilmente componibili senza contrasto. Da un lato i movimenti di popolazioni sono un fenomeno di cui le dimensioni, i numeri, gli effetti sulla convivenza tra gruppi diversi nello stesso territorio presentano un fondamentale connotato collettivo: infatti si parla di “migranti” in generale.

Quando poi - magari per una fotografia o un racconto personale- siamo costretti a considerare la tragedia personale che continuamente si ripete, ecco che violentemente viene in luce l’altro aspetto del fenomeno. I grandi numeri sono la somma di numeri singoli. E qui i numeri singoli sono singole persone: bambini, donne, uomini.

Ciascuno è titolare di diritti, non solo come effetto di umanità e civiltà in rapporto alle persone, ma anche di diritti in senso giuridico. Sono diritti riconosciuti - per quel che ci riguarda - a livello europeo, come caratteristica distintiva di una particolare cultura e civiltà. Sottostante alla difficile convivenza tra governi e giudici c’è il diverso oggetto del ruolo e della legittimazione di ciascuno di essi: i governi contrastano il fenomeno collettivo, i giudici proteggono i diritti delle persone. A rischio è un tratto essenziale della nostra concezione della democrazia.