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di Antonio Nastasio*

bergamonews.it, 10 febbraio 2024

Acquisire ospedali militari per avere delle case di accoglienza, non per carceri bis, è un’opportunità da non mancare. Un lungo percorso ha avuto inizio nel 2008 con l’obiettivo di creare una modalità carceraria in strutture dedicate al reinserimento e alla terapia, coinvolgendo enti locali e privati sociali in strutture a bassa organizzazione detentiva, ma con elevate capacità di offrire servizi. La finalità è evitare la recidiva e offrire una speranza di vita nella legalità a coloro che la cercano. Buono questo obiettivo ma, come progetto allegato, è prioritaria l’acquisizione di ospedali dismessi per tutti quei detenuti a rischio suicidario qualora non fosse possibile dare restrizione della personalità in modalità non detentiva.

Il mio interesse è stato suscitato da un articolo pubblicato sul Corriere del Veneto il 4 febbraio 2024, che riportava le dichiarazioni del Guardasigilli Carlo Nordio, che ha il limite almeno da quanto portava l’articolo, di non considerare le tante persone malate psichiche o in crisi depressiva grave.

Già questa proposta riempie di speranza riguardo all’attuazione di una battaglia che ha avuto inizio nel 2008 con la presentazione del progetto “Casa Giustizia” al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) dell’epoca. Sebbene non sia stato respinto, è stato ritenuto incompleto a causa della mancanza del costo complessivo di gestione e della valutazione delle condizioni degli edifici.

Nella proposta del Guardasigilli, con la riconversione di decine di caserme dismesse in carceri si dimentica il fattore maggiormente urgente dei tanti suicidi di persone in grande stato di depressione a rischio alto suicidario come sta accadendo con l’acquisizione di ospedali dismessi, come ex ospedali militari, sottolineando che la ristrutturazione sarebbe economica, poiché si tratta di strutture compatibili, con mura, garitte e ampi spazi adatti per il lavoro e lo sport, potenzialmente realizzabili anche dai detenuti stessi. Questa esperienza è già stata attuata all’estero, dove la ristrutturazione ha coinvolto i detenuti coordinati da maestri di mestiere dai quali possono apprendere specializzazioni che possono garantire loro opportunità lavorative al momento della liberazione. Pure l’approccio minimalista proposto per la ristrutturazione delle carceri, e aggiungo anche degli ospedali specie quelli militari, consentirebbe nuove modalità contenitive e di terapia, diverse da quelle tradizionali, al fine di affrontare efficacemente il problema dei suicidi in cella e dei malati di mente.

Anche limitare le custodie cautelari può essere una soluzione, ma è necessario considerare attentamente le presenze in carcere non strettamente connesse a detenzioni come le detenzioni brevi o fine pena imminenti non realizzabili con le misure alternative in quanto trattasi di detenuti poveri privi di risorse esterne. Il problema dei suicidi, in carcere, 15 in un mese, diversamente raggruppati nel territorio italiano, è un fatto reale e preoccupante in quanto non potrebbe fermarsi per una sorta di identificazione negativa in un contesto molto teso.

Il sovraffollamento e la mancanza di offerta di servizi adeguati alla situazione, contribuisce agli atti di violenza e autolesivi, fino al suicidio. Concordo con la limitazione delle custodie cautelari, ma sollevo un interrogativo sul numero complessivo di detenuti, per cui il carcere non può rappresentare la soluzione unica e ottimale. Mi riferisco alla presenza di detenuti europei che dopo la condanna di primo grado potrebbero essere riportati al loro Paese di origine assicurando la presenza ai gradi successivi di processo con la modalità della videoconferenza. Altro gruppo di detenuti che incombe sul carcere, sono gli stranieri rendendo il rientro in patria da facoltativa a obbligatorio, anche rinunciando all’azione penale, se giuridicamente e amministrativamente conveniente. In tali casi l’imputato perderebbero la cittadinanza italiana e la possibilità di ritornare.

Occorre quindi una diversificazione delle strutture e degli interventi, non considerando il carcere la sola soluzione ma adattando caserme e ospedali in base alle specifiche necessità dei detenuti, come attenzione non solo alle esigenze giuridiche ma anche ai bisogni di chi, fra loro, non è adatto all’ambiente carcerario tradizionale, come i malati gravi, i detenuti con pene brevi e le persone con problemi di salute mentale. Inoltre, è fondamentale coinvolgere gli enti locali e il privato sociale specializzato nella fornitura di servizi, tenendo conto delle esperienze passate che evidenziano la limitata efficacia delle grandi carceri e dell’importanza di una gestione snella.

Ritengo che l’approccio proposto dal ministro, orientato alla fornitura di servizi anziché alla mera detenzione, rispetti uno dei principi fondamentali dell’Ordinamento Penitenziario: la territorializzazione della pena, coinvolgendo Ente locale e Privato sociale che in parallelo alla detentiva ponga l’accento sull’offerta di servizi rispetto a quella custodiale anche in considerazione della presenza delle misure alternative ad esso..

Certamente il mondo dell’esecuzione non detentiva, misure alternative, abbisogna di una totale rivisitazione che non rappresenti una modalità per non appesantire il carcere di ulteriori presenze ma sia una modalità punitiva di esecuzione pena pur rimanendo inseriti nel contesto sociale. Nell’apprezzare l’impegno del ministro Nordio mi permetto suggerire che per questo nuovo progetto di acquisizione di caserme e di ospedali dismessi faccia maggiormente affidamento ad esperti del contesto sociale al fine di evitare una visione duplicativa del detentivo che potrebbe ostacolare l’innovazione proposta, magari con il beneficio di ridurre il numero di suicidi nelle celle.

*Dirigente superiore del Ministero della Giustizia in quiescenza