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di Francesco Gianfrotta

Corriere della Sera, 18 agosto 2023

C’era una volta il carcere di Torino: un luogo dove lavoravano duramente direttore, polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, volontari, accomunati dall’idea - confortata da risultati positivi - che una detenzione finalizzata al cambiamento delle persone fosse obiettivo non velleitario ma possibile. Idea condivisa e praticata anche in altre carceri; a Torino, sostenuta dalla città, che investiva importanti risorse; dalla Chiesa, che faceva altrettanto; da altre istituzioni e pezzi della società (scuola e Università organizzavano corsi in carcere; la Regione era impegnata nella formazione; mondo della cooperazione e settori della imprenditoria offrivano occasioni di lavoro): tutti convinti che fosse interesse generale - oltre che dovere costituzionale - che chi sbaglia, oltre a dover pagare, sia posto in condizioni di scegliere una prospettiva diversa dalla recidiva, con vantaggio per l’intera collettività.

I due suicidi di donne avvenuti nel carcere di Torino in un solo giorno raccontano, per più ragioni, una situazione profondamente mutata. Andiamo per ordine. È, anzitutto, sbagliato sostenere (lo fanno in molti) l’ineluttabilità del suicidio, in quanto frutto di una irresistibile determinazione della persona. I fatti parlano chiaro. Per tre anni, negli anni duemila, non si registrarono suicidi nel carcere di Torino; per contro, già nel 2022 (annus horribilis, con 85 suicidi nelle carceri italiane), a Torino ce ne sono stati 4. Non solo. L’ultima circolare sulla prevenzione dei suicidi, con linee-guida rigorose sull’attenzione che l’intera struttura carceraria deve prestare al riguardo, risale all’agosto 2022.

Quale è lo stato della sua attuazione? Può appagare l’eterna giaculatoria sulla mancanza di risorse, ostativa al suo puntuale rispetto? La risposta affermativa può venire solo da una amministrazione che abbia smarrito l’idea delle sue priorità: in primo luogo, dare concretezza alla responsabilità dello Stato rispetto alla vita delle persone private della libertà. Non va trascurato il fatto sono tanti i poliziotti penitenziari che si distinguono nel riuscire a sventare tentativi di suicidio e nel soccorrere detenuti resisi protagonisti di gesti autolesivi; ed altrettanti i dirigenti e dipendenti dell’amministrazione penitenziaria che, quotidianamente, si prodigano, tra tante difficoltà, per dare attuazione, nei limiti del possibile, al mandato costituzionale della pena quale mezzo per la rieducazione.

Quale è, invece, il messaggio che arriva a tutti loro dal centro e da chi porta la responsabilità politica dello stato delle carceri? È possibile che - con brevi intervalli che hanno rappresentato eccezioni al trend manifestatosi - esso non costituisca più uno stimolo forte all’impegno ed alla condivisione degli obiettivi ai quali il sistema penitenziario dovrebbe tendere.

Rimaniamo ai casi di Torino e del Piemonte. Tempi lunghissimi per coprire i vuoti dell’organico dei direttori di carcere e della Polizia penitenziaria (gli istituti del Piemonte continuano a soffrirne); condizioni degli ambienti detentivi che, in un caso, fecero inorridire la Ministra Cartabia e, in un altro, segnalarono il progressivo abbandono al loro destino dei detenuti affetti da problemi di natura psichiatrica (la sezione Sestante, della quale si occuparono le cronache anche nazionali).

È regola di esperienza che una struttura complessa e articolata, che ha compiti delicatissimi, vive anche di diffusa percezione di impegno. Carenze e ritardi accumulatisi nel tempo, dimostrati dal fatto che, pur con le diversità della popolazione detenuta odierna, le problematiche del sistema penitenziario, denunciate da operatori e opinionisti, sono sempre le stesse, demotivano, invece di sostenere l’impegno degli operatori. Altro che ineluttabilità dei suicidi! Il loro numero di quest’anno, allarmante come il picco del 2022, è la manifestazione più eclatante di un intreccio di problemi aggravatisi perché non affrontati con determinazione e visione lungimirante.

Né rassicurano sul futuro le dichiarazioni del Ministro Nordio dopo gli ultimi due suicidi di Torino. La prospettiva di utilizzo delle caserme dismesse è, davvero, un parlar d’altro. Un modo, nemmeno innovativo (l’ipotesi fu considerata e subito scartata sul finire degli anni 90), di dissimulare un sostanziale vuoto di idee rispetto ad uno snodo cruciale, quale l’utilità delle pene detentive brevi in un contesto di sovraffollamento. È contraddittorio sostenere - il che è condivisibile - che la costruzione di nuove carceri, richiedendo troppo tempo, non è soluzione praticabile rispetto all’emergenza attuale costituita dal numero dei detenuti; e pensare, contemporaneamente, quale soluzione, all’utilizzo delle caserme.

Quanto tempo occorrerà per ristrutturare le caserme e farle divenire ambienti detentivi idonei per detenuti condannati a pene brevi? E, prima, quanto tempo occorrerà per la loro individuazione e passaggio dalla Difesa alla Giustizia, con le corrette soluzioni giuridiche ed amministrative? Basterà questo cambio di luogo di detenzione per trasformare il tempo vuoto (come è oggi) in tempo utile, senza il concorso dei territori per la formulazione ed attuazione di progetti di risocializzazione?

Sono questioni che, da anni, molti pongono all’attenzione generale (della politica, in primis): la detenzione breve, per sua natura, non può coniugarsi con una riflessione adeguata sul proprio passato e sul proprio futuro. Manca il tempo. Lo ha dimostrato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti nella sua relazione di gennaio 23: il tempo vuoto rende la detenzione priva di senso; c’è, invece, spazio per la disperazione. Se non è utile, la pena è fuori dallo schema dell’articolo 27 della Costituzione: le ex caserme non potranno bastare a cambiarne la natura, ridurre il sovraffollamento e prevenire i suicidi.