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di Salvatore Rossi

Gazzetta del Mezzogiorno, 9 gennaio 2023

La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole. La lunghezza spropositata dei procedimenti nelle aule giudiziarie italiane è una piaga che ci tormenta da decenni. Un giudizio penale o una causa civile che durano anni e anni sono la prima ragione d’ingiustizia in quello che dovrebbe essere il sistema di giustizia a cui i cittadini si rivolgono.

La legge è uguale per tutti, sta scritto nei luoghi in cui si esercita la presunta giustizia, ma la legge diviene fortemente diseguale se per la sua applicazione occorre un tempo irragionevole, perché da ciò alcuni beneficiano: chi deve risarcire un danno, o chi spera nella prescrizione di un reato che ha commesso; altri ci perdono: chi aspetta un risarcimento, o chi vede frustrato il suo desiderio che i crimini vengano puniti.

Tuttavia non vi sono conseguenze negative solo per l’etica pubblica e la convivenza civile: ve ne sono di nefaste anche per l’economia, dunque per il benessere materiale dei cittadini. Negli scorsi trent’anni molti studi empirici in tutto il mondo hanno dimostrato in modo inoppugnabile come l’efficienza della macchina per la produzione di giustizia in un paese ne possa favorire lo sviluppo economico, meglio garantendovi ad esempio i diritti di proprietà e la tutela dei contratti. Allora è più agevole il finanziamento delle imprese, queste sono più inclini a fare investimenti, il paese ha una più alta capacità di competere con altri sistemi nazionali, è più spiccata l’attrattività per investitori esteri.

Come si misura l’efficienza della giustizia? Non è per niente facile. Ragionando da economisti, occorre innanzitutto distinguere l’offerta dalla domanda. Concentriamo la nostra analisi sulla giustizia civile, di immediata rilevanza ai fini dello sviluppo economico. L’indicatore quantitativo principe dell’offerta di giustizia, cioè della funzionalità dei tribunali, è appunto la durata dei processi. La domanda di giustizia, ovvero la litigiosità della cittadinanza, può essere misurata dal numero di nuovi processi iniziati nell’arco di tempo prescelto, di solito un anno. Una ricerca recente di economisti della Banca d’Italia (Cugno, Giacomelli, Malgieri, Mocetti, Palumbo) mette in fila questi e molti altri dati, ormai disponibili, ma li corregge per tenere conto della complessità della materia trattata: un processo su una intricatissima vicenda che coinvolge due grandi società multinazionali è diverso da una lite di condominio ed è naturale che implichi ad esempio durate diverse.

Emerge la conferma di un fatto drammatico, notorio ma che si tende a dimenticare: se l’Italia nel suo complesso è agli ultimi posti al mondo quanto a efficienza della giustizia, il Sud d’Italia sprofonda letteralmente. Nel periodo 2015-2019 la durata media dei processi civili ordinari, corretta per tener conto della loro diversa complessità, è stata di 700 giorni nel Centro-Nord, di 1.100 nel Sud. Non sono dati da paese avanzato. La litigiosità al Sud è pure maggiore che al Centro-Nord: in quegli anni sono stati iscritti nei tribunali del Sud quasi 40 nuovi procedimenti l’anno per 1.000 abitanti, contro i 29 del Centro-Nord (dati pure corretti).

Sempre nella ricerca citata vengono stimati il numero di giudici e il numero di impiegati amministrativi dei tribunali, ponendoli in rapporto al numero corretto di nuovi procedimenti. Sorpresa delle sorprese: al Sud i rapporti sono entrambi maggiori che al Centro-Nord (con la sola eccezione, pensate un po’?, della Puglia, che risulta essere sguarnita di magistrati rispetto al resto d’Italia).

Se ne deduce, pur riconoscendo qualche recente progresso, che l’organizzazione della “fabbrica” della giustizia in Italia, e ancor più al Sud, è ancora intrinsecamente inefficiente, nel senso che - a parità di costi - i servizi prodotti sono da noi di quantità e qualità inferiore ad altri paesi. Quali le cause? La irrazionalità della rete degli uffici (troppo frammentata e squilibrata geograficamente), la disorganizzazione interna di questi, il tuttora scarso uso delle tecnologie digitali, la bassa produttività media dei giudici. L’alta litigiosità italiana, e quella altissima del Sud, può avere cause antropologico-culturali, attinenti alla dotazione di “capitale sociale”. Ma vi possono essere altre spiegazioni, empiricamente verificate in numerosi studi.

Ad esempio, il calcolo opportunistico: anziché pagare un creditore mi faccio chiamare in giudizio, l’inefficienza del sistema farà sì che alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà una transazione e mi farà uno sconto. Oppure, l’alto numero di avvocati e gli incentivi perversi insiti nella struttura dei loro compensi, legati al tempo più che al risultato. Oppure ancora, l’inquinamento normativo: norme mal scritte e continuamente cambiate. Infine, le erratiche oscillazioni della giurisprudenza, soprattutto di quella della Corte di cassazione.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impegna il nostro paese a ridurre del 40 per cento la durata dei processi civili entro il 2026. È il minimo che si possa desiderare. Occorre attuare il Piano pienamente e col puntuale rispetto dei tempi, puntando anche a un riequilibrio territoriale.