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di Andrea Galli

Corriere della Sera, 18 giugno 2023

L’ex moglie: ormai è una larva. Dal suicidio del fratello alle prime denunce, biografia di un’icona del male. Ha pagato per sé e pure per gli altri, quei complici che lui, il 73enne Renato Vallanzasca, aveva difeso, protetto, insomma salvato, rispondendo alla personale concezione dell’importanza di termini desueti quali l’amicizia, la lealtà, l’esser fedeli, e insieme sublimando i doveri del comandare nell’obbedienza a un’indubbia mitomania imperante.

Dopodiché, nei sentimenti dei tanti che per colpa del bandito killer han perduto familiari, nulla cambia, mai cambierà: pertanto, dovesse campare anche fino all’ultima sua ora in carcere, che così sia; nessuna pietà, nessun calcolo sul tempo trascorso in cella, quasi 52 anni, un’eternità, una tomba da vivo; e men che meno nessun dibattito supplementare dopo le ultime parole pronunciate dall’ex moglie Antonella D’Agostino, che in relazione alle (presunte) gravi condizioni fisiche e mentali di Vallanzasca, da donna che ha percorso ed esplorato il mondo andando al centro delle cose, dice: “Ormai è una larva”. Sicché, quantomeno per curarlo, “fatelo uscire di galera”.

Ma i giudici non ritengono che esistano i presupposti, stante un quadro clinico non così grave da decidere appunto il trasferimento in ospedale, altrimenti Renato Vallanzasca, condannato a quattro ergastoli, come qualunque altro detenuto avrebbe già ottenuto quanto le leggi prevedono. Capitolo chiuso. E allora, ci si domanda, forse che egli reciti con l’appoggio della sua ex? Forse che stia inscenando l’ennesimo trucco in un’esistenza, oltreché di omicidi, rapine, sequestri ed evasioni, da gran bugiardo?

La signora D’Agostino ha inviato una lettera all’agenzia di stampa Ansa: “Rifiutare le misure alternative significa umiliare una persona ridotta all’ombra di quello che era. Renato ha passato 8 anni in semilibertà e poi ai domiciliari senza fare nulla di male”. Si sbaglia, o forse no: c’è l’episodio di quelle mutande rubate da Vallanzasca in un supermercato approfittando di qualche ora di permesso; una vicenda che “mi ha fatto capire come il suo cervello stesse smettendo di funzionare”. Ma rimane vero che non appena ha cominciato ad avere coscienza, il futuro bandito killer vagabondava arraffando roba d’altri, tipo le scorrerie da piccolino nelle edicole per portar via i fumetti di Tex Willer e le scatole delle figurine Panini.

Vallanzasca sarà un eterno personaggio mediatico, ché ai giornalisti, forse indugiando in esercizi di banalità, è sempre piaciuto. Uno che fa titolo facilmente, diciamo.

E però, tralasciando il noioso e infelice ricorso, trattandosi di un assassino, al soprannome “il bel René”, nel quale peraltro il diretto interessato mai s’è ritrovato, andrebbe corretta la geografia. La collocazione alla Comasina, per esempio. Vallanzasca è cresciuto dapprima in via Porpora, in un appartamento al civico 162. Lì, in un minuscolo appartamento, stava l’adorata madre, di nome Marie e di cognome Vallanzasca, fidanzata di Osvaldo Pistoia, di professione operaio anche se non investito dalla fede per la fatica, padre del bandito killer e a sua volta sposato con Rosa Pescatori, domiciliata al Giambellino, in via degli Apuli 2. Un’altra periferia e seconda base di Vallanzasca, che quando la mamma, una sarta, non riusciva a tenerlo, per decisione di Osvaldo, uno che girava Milano corteggiando le ragazze dopo essersi presentato come famoso cronista, finiva al Giambellino, nei caseggiati dell’emigrazione, prima gli italiani quindi i nordafricani.

A interrogare i criminologi in merito all’adolescenza di Vallanzasca, erano emerse pesanti tracce anticipatorie: l’assenteismo a scuola (dalle classi elementari), l’attitudine alle menzogne, il disinteresse per i danni arrecati al prossimo; d’altronde, in età adulta, ecco l’ammissione ripetuta e ancora ripetuta: “Io sono nato per essere un ladro”. Una sorta di predestinato, e pace per le qualità non comuni — la mente svelta, la naturale leadership, il fisico da atleta, l’impressionante memoria, le capacità di seduttore — che, s’intende, avrebbero potuto collocarlo su scenari assai virtuosi.

Vallanzasca ha un figlio che ha cambiato cognome per vergogna; la maggioranza dei suoi complici sono deceduti; nei decenni, chi l’ha avvicinato è stato mosso dal tentativo di sfruttare un brand e guadagnarci sopra; gli affetti reali che ha intorno sono pressoché azzerati, anche se, potesse, farebbe tornare indietro un’unica persona. Il fratello Ennio. Fu lui a scoprirne il cadavere, da ragazzino, in un prato. Ennio, uno dei figli di Rosa Pescatori, si sparò in faccia. Dinanzi a Ennio, Vallanzasca taceva e obbediva.

Di nuovo Antonella D’Agostino, con quella sua lettera, ci vuol ricordare che “Renato sta marcendo, non capisce più dove si trova... Lo avete piegato, basta. Ora basta”. Forse non basterà. Nel 1965, a 14 anni, Vallanzasca era stato fermato dai carabinieri per essersi infilato dentro un taxi parcheggiato e aver preso la scatola con le monete da dar di resto ai clienti. Giurò d’aver fatto tutto da solo, scagionando gli amici, che anzi l’avevano implorato di lasciar perdere; già che c’era, ai medesimi carabinieri raccontò che due mesi prima, all’Idroscalo, s’era impossessato di un portafoglio dimenticato dal proprietario sul sellino di una Vespa, ma s’era pentito e l’aveva riportato indietro. Vero, falso, inventato? Non si seppe.