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di Francesco Grignetti

La Stampa, 30 marzo 2022

Il racconto del giornalista Rai Nico Piro nel libro, “Kabul, crocevia del mondo”: analogie e dubbi tra Kiev e Kabul. Ieri i taleban, oggi gli invasori russi. Solo pochi mesi corrono tra due guerre brutte sporche e cattive che hanno colpito la coscienza del mondo. E però, tra Kiev e Kabul, torna un quesito: c’è un modo per raccontare il nemico senza scadere nell’invettiva, nella ripulsa e quindi, in definitiva, nel rifiuto? Chi ci sta provando immancabilmente è accusato di intelligenza con il nemico. Uno che ne sta facendo le spese sui social, ad esempio, è il giornalista Nico Piro, inviato della Rai, che ha seguito con passione il ventennale conflitto afghano ed è al suo terzo libro sul tema, “Kabul, crocevia del mondo” (people editore).

Piro ha scarpinato per l’Afghanistan quando muoversi era davvero pericoloso per i giornalisti occidentali. È andato a ficcarsi in posti incredibili seguendo i militari italiani o quelli statunitensi, come anche le forze regolari afghane, quelle che poi si sono sciolte nell’8 settembre di Kabul. Ha rischiato la pelle. Una volta, per tirare fuori la pattuglia con cui viaggiava da un’imboscata dei taleban, sono intervenuti gli F15 americani che hanno bombardato tutt’attorno. Quindi non può e non dev’essere sospettato di cedimenti sentimentali verso i taleban, però Piro è un giornalista fino in fondo. Ed è un pacifista. Il suo motto è stupendo: “Se vuoi la pace, impara a conoscere la guerra”. Già, perché guarda caso, chi conosce sul serio la guerra, ha sentito l’odore della morte, ha visto i cadaveri a terra, è poi il primo a volere la pace. Diffidare invece dei guerrafondai da salotto, che una guerra non l’hanno mai vista.

Ecco dunque che Nico Piro è tornato in Afghanistan per primo, dopo il cambio di regime, nello scorso autunno. Ha scoperto il paradosso di avere per interlocutori, gli stessi che fino a qualche mese prima tentavano di accopparlo. Racconta di un tè preso con i miliziani taleban che lo scortano in un’area remota della provincia di Nangarhar, appena liberata dai competitor dell’ISKP, il gruppo affiliato all’Isis: “Sin dal mio arrivo all’aeroporto di Kabul - scrive - sto vivendo una sensazione di disagio: a proteggermi oggi ci sono gli stessi che per anni hanno provato ad ammazzarmi o, nella migliore delle ipotesi, a scaraventarmi nel cofano di un’auto diretta nelle aree tribali. Fatico a capacitarmene. Davanti al tè, chiacchieriamo della guerra contro gli infedeli, della vittoria voluta da Allah contro la potente America, fin quando chiedo a tutti: “Oggi sono qui con voi al sicuro, ma fino a poco fa facevate di tutto per ammazzarmi perché ero un giornalista e uno straniero. Cosa è cambiato?”. La risposta è corale: “Tu sei nostro ospite, l’ospite in Afghanistan è sacro”. “Per me questo è il Paese più bello del mondo, sapete che ho sempre desiderato portarci la mia famiglia?” “Portala pure, garantiamo noi per la loro sicurezza.” Un miliziano dal fondo del gruppo aggiunge, gridando: “Welcome to Afghanistan!”, orgoglioso di quelle poche parole in inglese che conosce”.

Il dilemma del giornalista è tutto qui. Se ci si ferma al giudizio morale, con i taleban non si parla, non si tratta, tantomeno si prende il tè. Se si vuole capire che cosa ha in testa il nemico, chi è, allora ci si deve spogliare dai pregiudizi e inoltrarsi in terra incognita.

Attenzione, i primi a non fidarsi dei taleban, sono gli afghani stessi. Quelli che si erano lanciati in una prospettiva di democrazia, diritti e modernità e ora vivono un incubo. “Gli afghani - scrive Piro - non si fidano dei talebani. Nonostante ormai ci siano nuove generazioni di combattenti, tutti si portano dietro la maledizione del ‘96, quella del primo Emirato, durante il quale avevano commesso un’infinita serie di abusi e prevaricazioni sulla popolazione locale: l’uccisione barbara dell’ex Presidente Najibullah, l’attacco al museo nazionale e la distruzione dei Buddha di Bamiyan, le frustate alle donne trovate in strada da sole o senza burqa, le esecuzioni allo stadio alle quale gli studenti venivano obbligati a partecipare. Se a ciò si aggiungono vent’anni di conflitto durissimo in cui mai hanno risparmiato la popolazione civile, si capisce perché nonostante abbiano riportato la pace, nonostante gli attentati e i combattimenti siano finiti, non tutti gli afghani si fidino di loro. La convinzione diffusa è che sia solo una questione di tempo, prima o poi ritorneranno a essere quelli di prima”.

E intanto sono le ragazze le prime a pagare il prezzo del nuovo regime: la sospensione “temporanea” dell’istruzione femminile sta diventando definitiva. Gli ex impiegati della Repubblica sono disoccupati. Aiuti internazionali non arrivano più. E monta una carestia devastante, aggravata dal cordone sanitario che è stato steso attorno all’Afghanistan dei nuovi potenti. Ci sono già bambini che muoiono di fame e di malattie. Più che prevedibile il boom nella coltivazione di papavero da oppio perché è la pianta che meglio si adatta alle condizioni climatiche dell’Afghanistan e perché l’eroina è il prodotto che si può esportare con più facilità. “È troppo presto, quindi, per prevedere come sarà il raccolto del 2022 ma è difficile sbagliarsi. In un Afghanistan assediato dalla fame e senza più aiuti internazionali, la produzione di oppio è destinata a essere indispensabile e persino salvifica per centinaia di migliaia di famiglie, ma una maledizione per molte più persone nel resto del mondo, dove continuerà ad arrivare eroina a basso prezzo e dove politici miopi continueranno a guardare l’Afghanistan sprofondare, pensando: Stavano meglio quando c’eravamo noi”, la conclusione amara di Piro.

Ecco, questa è la cruda realtà afghana. Poi, certo, per i taleban come per i russi, si può scegliere la via della ripulsa. Ma non sapremo mai che cosa si agita nel loro animo, per prendere magari le contromisure in tempo.