di Pino Corrias
Vanity Fair, 8 febbraio 2023
Un anarchico detenuto che digiuna e sembra che l’italia intera vada in tilt. È la nuova specialità del governo: trasformare ogni bicchiere della cronaca in una tempesta politica. È successo con la fesseria dell’allarme rave party, che il nostro ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha tramutato in una emergenza nazionale, anche se solo per qualche ora, prima di dedicarsi a modificare i salvataggi degli immigrati-straccioni in pubbliche crociere lungo le coste italiane, per godersi, in privato, il piacere di viverle all’asciutto. Poi è toccato alla guerra lampo sul Pos, la scatola per i pagamenti digitali, trasformata in una battaglia di libertà, anche se era, più modestamente, la cara, vecchia rivendicazione del contante per la piccola evasione quotidiana.
Stavolta tocca al “pericolo anarchici” che in queste ore infiamma il governo, scuote l’opposizione, terremota i giornali. Intasa la tv talk. Riempie le trincee di garantisti e di giustizialisti, che si danno battaglia, anche se tutti distantissimi dalla svalvolata biografia del detenuto in oggetto, Alfredo Cospito, 55 anni, anarchico di Pescara, rimasto congelato in una bolla d’aria del Novecento italiano, che aveva il tritolo e le gambizzazioni guerrigliere incorporate.
Per due di quei delitti, il ferimento di un dirigente d’azienda e un attentato fallito a una caserma dei carabinieri, Cospito è stato condannato, nel 2012, a un totale di 30 anni di galera. Da allora si dichiara prigioniero politico e rivendica i reati a nome suo e a quello del Fai, la Federazione anarchica informale, che è galassia inafferrabile, pulviscolare, in lotta contro le democrazie occidentali che per loro sono sistemi di governo dove si fabbricano le peggiori ingiustizie sociali.
Cospito contesta il regime di detenzione a cui è sottoposto, inasprito dal 41-bis, che vuol dire isolamento totale, 22 ore al giorno in cella chiusa, un solo colloquio al mese, varato negli anni delle stragi mafiose, per impedire contatti tra i boss arrestati e le rispettive organizzazioni criminali. Il digiuno del detenuto dura da 100 giorni e passa. Nessuno dell’amministrazione penitenziaria e pochissimi della politica se ne sono occupati fino a quando il digiuno ha messo in pericolo la sua vita, infiammato qualche piazza, alimentato le proteste dei garantisti vista la pesantezza della pena e il regime del 41 bis che in molti considerano incostituzionale perché sigilla il detenuto, anziché “tendere alla sua rieducazione” come vorrebbe ogni buona legislazione, compresa la nostra, dai tempi di Cesare Beccaria in poi.
Ogni ingranaggio si è messo in moto per complicare, invece che risolvere, la sorte del detenuto. Lo avrebbe dovuto fare per tempo la magistratura di sorveglianza. Oppure la normale politica di un normale governo. Che invece preferisce convertire le tensioni in (finte) emergenze, attaccare le opposizioni che balbettano, flettere tutti i muscoli identitari. Per poi ammirarsi nello specchio della solita propaganda illuminata dalla fiamma tricolore.