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di Andrea Pugiotto

L’Unità, 16 ottobre 2024

L’ottava fumata nera è stato un brutto spettacolo d’arte varia. Ma in gioco c’è la salute della nostra democrazia. Tocca ai gruppi parlamentari, anche d’opposizione, ritrovare autonomia e prendere iniziativa. 1. Lo spettacolo d’arte varia andato in scena a Montecitorio, con l’ottava fumata nera per l’elezione del quindicesimo giudice costituzionale, è stato deludente. Una recita a soggetto in cui tutti gli attori si sono mostrati inadeguati ai ruoli chiamati a interpretare. Ne è uscito un melodramma parlamentare, utile soltanto a muovere il segnapunti a favore delle opposizioni e contro la maggioranza. Come se, in gioco, ci fosse esclusivamente la tigna della Presidente del Consiglio, impegnata in prove tecniche di premierato. Ma non era certo per mettere in scacco il governo di turno che Marco Pannella spingeva i suoi digiuni al limite estremo dello sciopero della sete, pur di ottenere la ricostituzione del plenum della Consulta. Qual è, allora, la reale posta in palio?

2. Democrazia costituzionale non è sinonimo di assolutismo democratico. Citando il Presidente Mattarella (non a caso, nella sua vita pregressa, costituzionalista e giudice costituzionale): “una democrazia della maggioranza sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione”. Traduco? I limiti al potere della maggioranza parlamentare stanno dentro e non fuori il disegno di una democrazia costituzionale, il cui fine è garantire il pluralismo impedendo a chi vince le elezioni di prendersi tutto, senza fare prigionieri.

La Corte costituzionale è, tra questi meccanismi contromaggioritari, uno dei più strategici. Giudica sulla legittimità delle leggi, cancellandole o correggendole se incostituzionali. Presidia i confini tra i poteri dello Stato, garantendone la separazione e incentivandone la leale collaborazione. Altrettanto fa risolvendo i conflitti tra Stato e Regioni. Dà o toglie dalle mani degli elettori la scheda referendaria. È giudice del Capo dello Stato accusato di alto tradimento costituzionale.

C’è dell’altro. La questione di costituzionalità e il referendum rappresentano canali alternativi alla via parlamentare, per condurre battaglie di scopo che le Camere ignorano e il Governo osteggia. È grazie a decisioni della Consulta se, in questi anni, qualcosa è cambiato - ad esempio - in materia di fecondazione assistita, diritto di voto, fine vita, condizione carceraria, proporzionalità delle pene, libera concorrenza. Analogamente, è stata la Consulta a bocciare - da ultimi - quesiti referendari in tema di eutanasia e cannabis legali, così precludendo il voto popolare su leggi di sicura rilevanza politica.

Come un semaforo, ora verde ora rosso, la decisione dei giudici costituzionali incide sullo scorrimento dell’indirizzo politico dei governi e delle loro maggioranze. E così sarà anche nei mesi a venire. Ricorsi regionali e referendum contro l’autonomia differenziata; quesiti abrogativi in materia di lavoro e di cittadinanza; abrogazione del reato di abuso d’ufficio; normativa sulle navi Ong operanti nel Mediterraneo: sono solo alcuni dei nodi che la Corte costituzionale dovrà sciogliere a breve. E dovrà farlo in un contesto politico che il suo Presidente Barbera descrive come “un bipolarismo rusticano, pronto al duello all’ultimo sangue” in cui prevale “la tentazione della delegittimazione e della demonizzazione reciproche”.

3. Ci sono tre modi per disinnescare una Corte costituzionale che svolga, come deve, il suo ruolo di veto player. Il primo è ignorarne i giudicati sgraditi e, prima ancora, i moniti al legislatore affinché intervenga a rimuovere le criticità costituzionali di norme in vigore: facendola così girare a vuoto. Il secondo consiste nell’approvare leggi che solleticano un facile consenso elettorale ma palesemente incostituzionali, per poi criticare la Consulta quando interverrà a cancellarle, contrapponendo la volontà popolare a quella elitaria di quindici giudici privi di legittimazione democratica: così delegittimandoli.

Su queste due strade, non da ora, ci si è spinti pericolosamente in avanti. Volendo esemplificare: cos’è rimasto della copiosa giurisprudenza contro gli abusi della decretazione d’urgenza? Quale seguito hanno avuto le decisioni in tema di suicidio medicalmente assistito? E la sentenza che riconosce ai detenuti il diritto all’affettività inframuraria? Davvero è conforme alle indicazioni della Consulta la riforma dell’ergastolo ostativo introdotta con il primo decreto legge della legislatura? Veramente la maggioranza non ha contezza dell’irragionevolezza di molti dei nuovi reati e dello sproporzionato inasprimento di molte delle pene che s’intende introdurre con il cd. pacchetto sicurezza (AS n. 1236)?

Ora, però, Palazzo Chigi fa leva anche su una terza leva: imporre i “suoi” giudici nel collegio costituzionale, applicando a un organo di garanzia la logica tutta politica di un improprio spoil system. Ci ha provato, invano, giorni fa. Ci riproverà a dicembre, con maggiore accortezza e spirito di rivalsa, quando saliranno a quattro i giudici costituzionali di elezione parlamentare. E se un unico giudice non esercita alcuna egemonia in un collegio di quindici, già quattro sarebbero in grado di spostarne il baricentro. Anche solo in chiave interdittiva, magari agevolata in futuro da una mirata revisione normativa nei protocolli di voto della Consulta: chi, infatti, può escludere l’introduzione dell’obbligo di una maggioranza qualificata perché possa deliberare una decisione d’incostituzionalità? Impossibile, si dirà. Ma impossibile si dice di una cosa fino a che non si realizza, com’è già accaduto in altri ordinamenti (cfr. Mauro Arturo Rivera León, Supermajorities in Constitutional Courts, Routledge, 2024).

4. A questo assalto alla composizione della Consulta, la risposta delle opposizioni è stata propagandistica. Mimando una scelta aventiniana a presidio della democrazia in pericolo, hanno disertato l’aula per evitare l’indicibile: cioè che proprio dalle loro fila arrivassero i pochi voti necessari alla maggioranza per raggiungere il quorum richiesto. Va da sé in cambio di qualcosa, negoziata riservatamente su altri tavoli. Come se il nome di un giudice costituzionale potesse essere oggetto di baratto. Double face è stato anche il comportamento della maggioranza parlamentare. Decidendo di votare scheda bianca, dichiaratamente in ossequio alle istituzioni, in realtà ha inteso evitare il rischio di franchi tiratori contro il candidato prescelto e - per interposta persona - contro l’atteggiamento padronale di una premier che impone il chi, il come e il quando.

Dietro la vetrina parlamentare si intravede così un retrobottega dove alligna la comune volontà di arrivare con un nulla di fatto al 21 dicembre, quando il poker di giudici da eleggere agevolerà la spartizione dei nominati. Ma, per la Costituzione, ““spartire” e “condividere” sono due verbi molto diversi” (Donatella Stasio, La Stampa, 9 ottobre). La logica “a pacchetto” farà anche gola a entrambi gli schieramenti. Ma non è la logica né degli alti quorum costituzionali necessari alla scelta del giudice mancante, né del tempo indicato dalla legge per la sua elezione: un mese dalla cessazione della carica (qui, invece ne sono già inutilmente trascorsi più di dieci).

5. Servirebbe un sussulto di autonomia politica dell’organo titolare del potere di scegliere il giudice mancante, che la Costituzione non assegna al Governo, al suo Capo o ai vertici dei partiti, ma al Parlamento in seduta comune. Tocca, allora, ai gruppi parlamentari - anche di opposizione prendere l’iniziativa. Propongano una candidatura non di bandiera, bensì riconosciuta dai più come “meritevole per cultura giuridica, esperienza, stima e prestigio, di assumere quell’ufficio così rilevante” (per citare ancora il Capo dello Stato). Inizino a tessere attorno a quel nome la tela del consenso bipartisan. Lo votino, trasversalmente. Scrutinio dopo scrutinio, la candidatura potrà imporsi, a dispetto degli appetiti reciproci. Impossibile? In realtà, è già accaduto nell’ultima elezione al Quirinale. L’impossibile, infatti, non è mai tale; solo richiede un di più di tenacia, di volontà politica e di dignità istituzionale.