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di Eleonora Martini

Il Manifesto, 14 febbraio 2024

“Cuore Nero”, l’ultimo romanzo di Silvia Avallone per Rizzoli e nato nel carcere minorile di Bologna. La scrittrice biellese, attraverso Emilia e le altre, indaga l’animo umano. “Le femmine non sono violente. Secondo recenti studi sulla corteccia cerebrale hanno maggiori capacità, rispetto ai maschi, di elaborare la sofferenza, la rabbia, la frustrazione. E questo spiegherebbe, almeno in parte, perché solo il 4,2% della popolazione carceraria italiana è di sesso femminile”. Quella tesi le aveva fatte sbellicare. “Ehi, ragazze!” aveva gridato Giada. “Siamo l’eccezione dell’eccezione: una rarità!”.

Nei momenti di sconforto, quando né le sigarette, né la televisione che restava accesa fino a tardi, né il chiarore del lampione su strada che era il loro contatto visivo col mondo, né il dirimpettaio esibizionista di cui tutte si erano innamorate e neppure le pasticche per dormire bastavano, per consolarsi Afifa, Giada, Yasmina, Myriam, Marta ed Emilia traevano da quell’eccezione una qualche forma di orgoglio con cui puntellare quel corpo vuoto che era rimasto loro in dote. “Come rimangono le lapidi, le targhe, le fotografie incorniciate”.

Erano tutte adolescenti quando sono entrate nel carcere minorile e lì sono cresciute, senza un futuro da conquistare se non quello di resistere a loro stesse. Al grande buco attorno al quale ormai gravitano i loro organi interni. Un buco senza lacrime che Silvia Avallone ci costringe a guardare, senza retorica, in un romanzo che ti prende e non ti lascia fino all’ultima riga.

“Cuore nero” (Rizzoli, pp. 356 euro 20) nasce dall’incontro dell’autrice - vincitrice di numerosi premi tra cui il Campiello Opera prima e il Benedetto Croce, finalista allo Strega nel 2010 - con la realtà dell’Istituto penale minorile di Bologna. Che è un Ipm maschile, come la maggior parte delle 17 carceri per minorenni d’Italia. L’unico interamente femminile è quello di Pontremoli. Per completare il bagno nella realtà va detto che nell’ultimo anno questi istituti si sono riempiti di nuovo come mai prima del 2007.

Secondo Alessio Scandurra che sta redigendo l’ultimo rapporto ad hoc dall’associazione Antigone, al 31 gennaio 2024 i ragazzi reclusi erano in totale 516 di cui 14 donne. Tra loro, 310 i minori e gli altri sono giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni che hanno commesso il reato da minorenni; 266 gli stranieri. Ma - si badi bene - al 15 marzo 2023 negli Ipm c’erano “solo” 380 ragazzi detenuti, di cui 12 ragazze.

Un vero e proprio boom che, secondo Claudio Castelli, già presidente della Corte d’Appello di Brescia, è dovuto in buona parte al decreto Caivano e all’inasprimento in esso contenuto delle pene per i fatti di lieve entità in materia di sostanze, come ha spiegato durante il recente convegno organizzato dal Pd al Nazareno. Ma è anche vero, come sostiene Scandurra, che la fragilità e il disagio sociale sono generalmente cresciuti nelle nostre città. Anche Emilia, la protagonista del romanzo di Silvia Avallone, che non ha scusanti perché viene da una famiglia borghese, ha ricevuto buona educazione e tanto amore dal padre che è pronto a riaccoglierla e seguirla, della libertà ha paura. L’assapora, ma è una lotta continua con quel suo buco nero, “incapace di una vita normale, di relazioni normali”, che quasi le viene nostalgia del minorile, “con l’Esercito, la Frau girata male, la sveglia alle sette, le colazioni da distribuire, le chiavi di ottone che girano nelle toppe e fanno quel casino”. E le sbarre, rafforzate da una rete fittissima dalla quale non passano neppure i pensieri sconci.

Solo la scuola le può salvare. E i libri. La mappa del mondo. E quella unica prof che non dice “tu non ce la fai” ma ribalta la prospettiva. Da “giovani detenute”, condannate, marchiate, bollate, bandite da sempre e per sempre, a “studentesse”. Che è una “parola che contiene un movimento, una transazione” e “porta fuori dalla gabbia”. Marta l’ha capito prima di tutte. Quando, dopo tanti anni, ha sollevato lo sguardo oltre il “Cancello di ferro” e le “Mura invalicabili”, ha una nuova consapevolezza, che pure non la assolve.

“Dov’erano la scuola, l’Italia, l’Europa prima dell’arresto?”, si chiede. Come si salvano le Yasmina, le Afifa e tutte le altre, soprattutto straniere? “Avrebbero dovute portarle a teatro, al cinema, affidarle alle famiglie migliori, includerle in quel mondo privilegiato da cui erano sempre rimaste fuori. E invece le hanno chiuse dentro la merda”, dicendo loro “siete degli scarti”. “In una società civile, avrebbero dovuto essere non arrestate. Ma risarcite”. Lo sa anche Marta che non è sempre vero. Ma molto spesso lo è.